Cento di questi followers

Ohibò, ho pensato. Proprio questa parola, ohibò, che non si usa praticamente più, né  per iscritto né nelle conversazioni orali, figuriamoci nei soliloqui mentali. E invece io l’ho pensato,  ohibò, quando ho visto che questo blog ha 102 followers: è una parola troppo adeguata alla situazione.

Ehi, ho raggiunto (e superato! doppio ohibò!) quota cento; e chi lo avrebbe mai detto? Qua ci vuole un post autocelebrativo! Ben centodue persone (le ultime si sono iscritte proprio in questi giorni, confermando il mio sospetto secondo il quale quando taccio ricevo molti più consensi di quando parlo – a proposito di autocelebrazione) ricevono costantemente gli aggiornamenti di questo blog, presumibilmente chiedendosi  chi sia questo “losengriol” che spunta fuori una volta ogni tre mesi circa e chiedendosi come gli sia venuto in mente di iscriversi a un blog  chiamato castelliinaria, che sembra lo spazio di una casalinga esperta in cucito e bricolage.

Ebbene, non lo so neanche io, come vi sia venuto in mente. Però è bello. Ecco.

Quindi, alla prossima.

[Calo drastico di iscrizioni in seguito a questo post: previsto e calcolato.]

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L’ultimo degli esami

Emergo dai libri per dire solo una cosa: tornare a studiare latino a 25 anni, dopo dieci anni di oblio, è qualcosa di terrificante.

Terrificante.

Però è uno sforzo che sottolinea adeguatamente l’importanza dell’evento: questo è il mio ultimo esame, l’ultimo in assoluto della mia carriera universitaria. Dopo di questo, solo la tesi mi separerà dalla mia laurea magistrale. Dopo di questo, ci sarà finalmente la FINE: la mia vita universitaria sarà terminata.

Dopo di questo, potrò finalmente trascorrere in pace mesi e mesi a cercare lavoro e a godermi la dolce sensazione di non aver più lezioni a cui arrivare in ritardo (e per le quali farsi tenere il posto dalle amiche), esami che incombono sulla mia testa con date con cui si può giocare a tetris e pomeriggi passati a fotocopiare illegalmente libri della biblioteca, pranzi a base di pizza sull’erba della città universitaria e viaggi estenuanti fuori e dentro Roma, collezioni – e collazioni – di generosi appunti altrui e trepidanti attese fuori dagli studi dei professori (quando ci si sente davvero tutti sulla stessa barca), collassi dovuti alla kafkiana burocrazia delle segreterie e conversazioni che non sai bene se l’ansia te l’hanno fatta venire o te l’hanno fatta passare, entusiasmi da prime lezioni, soprattutto di quei corsi che sulla carta sembravano una schifezza, e invece! (quegli stessi entusiasmi che scompaiono magicamente quando si avvicinano la date dell’appello e si è convinti che si studierebbe volentieri qualsiasi cosa, ma non quella), serate accampati in casa d’altri senza sentirsi di troppo e uscite sempre con pochi soldi in tasca, alla ricerca della mostra gratuita o del biglietto scontato, incontri piacevolmente imprevisti e pianti cui solo un bacio può dare sollievo, nottate passate a decifrare la prosa dell’eminente studioso di turno e a cercare di arrivare, finalmente, alla fine del maledetto capitolo, soli, mentre fuori tutto tace, e l’unica domanda che emerge dal fondo della stanchezza, potentemente, è: ma a me, ma chi cazzo me l’ha fatto fare?

E da lì al chi sono, da dove vengo, dove vado ma soprattutto, io, cosa mai voglio fare della mia vita? il passo è breve, anzi, brevissimo.

Insomma, sarà la fine di tutto questo. Fantastico, no? 

…No?

 

RiTroviamoci

Vi segnalo questa iniziativa blogghesca: si chiama RiTroviamoci e risponde a un desiderio che prima o poi, nello scrivere  e nel leggere blog, si ha. O forse no. Se l’avete, sappiate che il primo incontro tra blogger si terrà a Roma, presumibilmente a maggio (per favore, votate maggio si potete, che maggio va bene sotto tanti punti di vista, non ultimo che Roma è troppo bella, a maggio).  Se l’iniziativa vi interessa, partecipate: sembrano un sacco organizzati, ‘sti qua. Dal canto mio, non perderò l’occasione per conoscere e riconoscere belle persone.

Vado. [Di parole, partenze e amore]

«Non sono gli occhi o le parole che amano, ma è il cuore che aderisce a un altro cuore.»  (M.)

Sono le tre di notte e io sono seduta su un letto a guardare una valigia aperta e piena fin sull’orlo, o di più. Chissà se domani riuscirò a chiuderla – ma sì, ci riuscirò, ce l’ho sempre fatta. Poi la caricherò sull’autobus, metterò le cuffiette nelle orecchie e dopo quasi sette ore di viaggio sarò arrivata.

Sto partendo. Vado verso una terra che mi chiama, verso una voce che finalmente non sentirò più solo al telefono, verso un paio di occhi verdi che quando mi guardano è come se qualcuno mi vedesse davvero per la prima volta.

Sono in viaggio, e la verità è che ho paura, ho scritto giorni fa, che tutti i giorni è una guerra con me stessa, ma anche credo sia il periodo più bello della mia vita, perché non è perfetto, non devo essere il giudice di me stessa (questo scriviamolo bello grosso, sottolineato e in grassetto, e con un paio di luci intermittenti già che ci siamo), perché, come mi disse qualcuno, «non ne hai il diritto».

E c’è che vorrei dire tante cose, che in questi mesi non ho scritto perché onestamente non avrei saputo come fare, come dar loro un nome, infilarle una dietro l’altra come perle sotto forma di parole, il che di solito è la mia arma prediletta contro il caos che mi sale dentro e che cerco di ordinare così, appunto, con le parole, con le storie, raccontandomi me stessa, mettendo in fila le parti di me come le perle di una collana, del resto si sa che la coscienza nasce con la parola, ho letto da qualche parte, e che l’uomo una volta creato per prima cosa diede i nomi alle cose, ho letto da qualche altra.

Per cui non scrivo, o meglio qualcosa scrivo anche, su quella carta che rimane chiusa nel cassetto e che a volte pesco chissà dove, presa al volo nell’urgenza del momento, e che si unisce ad altra carta che avevo dimenticato di avere   [tra le mani mi cade una lettera lunga pagine che non ho mai spedito, e non è neanche l’unica, ma questa per qualche tempo avevo seriamente pensato di inviarla, chissà se avrei mai ricevuto risposta]   e a quella virtuale di post iniziati e mai conclusi, o mai pubblicati, perché ci vuole del pudore con le nudità dell’anima – in ogni caso quel che ho scritto non è neanche una piccola percentuale di quel che mi scorre dentro.

E probabilmente è giusto così, va bene così, è questo quel che devo fare ora. Lasciare che scorra, immergermici dentro senza analizzarlo troppo, anche se un po’ mi dispiace, perché scrivere mi aiuta a ricordare, è come scattarsi una foto, e io amo ricordare, e amo anche scattare foto ora che ci penso.  E vorrei ricordarmi di tutto, anche dei più brevi attimi, di quelli belli e bellissimi e di quelli brutti e bruttissimi, di quando ho pensato che non sono abituata a pensare la giornata in due anziché da sola, e non ho capito ancora se è una cosa bella o brutta, ma credo tenda verso il brutto, o di quando ho sorriso guardando nella mia mano la chiave di una casa non mia, dove ho lasciato il mio spazzolino («questa è casa tua»), e questo credo tenda verso il bello, o di quando mi sono stupita di fare cose normali come andare a guardare una partita di calcetto, o del suo sguardo un po’ perplesso quando gli ho messo in mano un soffione – e insegnargli che i soffioni sono fatti per essere soffiati via, come fosse un bambino – , o di quella corsa prima che prendesse l’autobus per dimostrare a me stessa che potevo farcela, dopo i cinque minuti più lunghi di sempre, sola con tutte quelle lacrime che sembravano inesauribili, che potevo provare a combattere per essere felice, provare a resistere alla tentazione di lasciarmi schiacciare dalla paura (lo vedi che ti faccio soffrire?), o ancora dell’alba vista da una cucina vuota dopo una notte troppo lunga, o del tramonto sul mare, meravigliandosi ancora un volta di come scompaia in fretta il sole quando arriva all’orizzonte («non me ne ero mai accorto»), o del profumo dei tigli in fiore che ormai mi ricorda la sua città, o delle parole che salgono alle labbra ma si fermano un attimo prima, o degli occhi che si alzano al cielo ogni volta che dico no, non sono così bella come dici tu, o della rosa lasciata ad aspettarmi, come lui, che mi aspetta sempre («tu sei libera»)                  [o della domanda terribile, terribile, che cova sempre giù in fondo, in fondo a quel pozzo                 (…e se non sapessi amare?)         …e che va decantata, va lasciata riposare lì, in attesa che passi la sensazione di congelamento che prende il cuore, in attesa che il battito torni regolare – del resto, cercavo qualcuno o qualcosa che mi rianimasse tempo fa, o sbaglio?]

                                …e così vorrei continuare, fissare ogni attimo e scrivere la mia storia, scriverla mentre ci sono dentro, e raccontarmela, essere e dire allo stesso tempo, essere e raccontarmi. Ma forse, ripeto, è giusto così, va bene così. Lasciar tacere la voce narrante, lasciar perdere motivazioni e cambi di scena, finali provvisori e revisioni della trama, lasciare da parte il dire e far rimanere l’essere. Smettere di essere storia e iniziare ad essere vita.

Per cui, spengo tutto e parto. Vado in Puglia, vado da lui, dove il cuore riesce ad essere leggero e libero.

«L’amore è libero, non c’è costrizione.» (M.)

«…Tu sei libera

Vado.