Il sollievo dei vinti

Il 31 dicembre 2013 è stato l’ultimo giorno di apertura del ristorante dei miei. Da quest’anno  il luogo in cui sono cresciuta non esiste più.

I miei lo hanno aperto nel 1986, un anno dopo essersi sposati e un anno prima che nascesse mia sorella. Era un posto abbandonato prima che mio nonno, che aveva una trattoria sulla strada, lo comprasse per permettere ai miei di aprire una pizzeria e anche di avere una casa. La mia famiglia, infatti, abita ancora qui. Siamo in un querceto vicino al fiume, a pochi metri da una strada trafficata dalla quale, però, siamo quasi invisibili grazie agli alberi secolari che ci fanno ombra. Viviamo in una valle stretta dominata dalle montagne dell’Appennino, che d’estate riflettono lo sferragliare del treno che passa sulla strada ferrata. Il paese più vicino è un borgo medievale appoggiato su una collina. D’inverno a volte nevica, d’estate sentiamo gli scoiattoli saltare da un ramo all’altro di quegli alberi che rendono la nostra casa la più fresca della zona.

Quando mio nonno comprò il terreno, oltre alle querce e ad alcune costruzioni abbandonate non c’era granché. Un tempo questo era un villaggio di lavoratori impiegati nella centrale idroelettrica vicina, la prima costruita in Italia, durante il fascismo. Qui vivevano intere famiglie, con tutto quello che serviva, dalla chiesetta alla mensa, fino alla sala ricreativa. Tutte cose che esistono ancora, ma in forme diverse: la mensa, ad esempio, è diventata la sala più piccola del ristorante. Sotto l’intonaco ci sono ancora i motti fascisti sul pane e sul lavoro dipinti con quei caratteri neri e spigolosi che sulla facciata di una casa del paese di mio padre ricordano ancora agli automobilisti di “Tenere la destra”.

In una delle case degli operai che vivevano qui un secolo fa oggi viviamo noi. È una casa solida, con i muri spessi, il soggiorno dal soffitto mansardato e un bel camino. Si trova sopra alla cucina del ristorante, con il quale comunica tramite una semplice porta. Casa mia è il ristorante, e il ristorante è casa mia. I miei l’hanno ristrutturata, come hanno ristrutturato tutto il resto. Con il tempo hanno ampliato le sale, hanno trasformato la terra battuta in giardini circondati da basse siepi, vialetti e panchine. Li hanno aiutati genitori, fratelli, cugini e zii. Durante il giorno lavoravano nella trattoria dei miei nonni, la sera nella pizzeria, che poi è diventata anche ristorante. Quando ero bambina mi ricordo che tra quelli che lavoravano qui da noi, e non erano pochi, la maggior parte erano parenti: era una specie di grande impresa familiare.

Noi bambine siamo cresciute con la pizza il sabato sera, le zie che ci facevano assaggiare il sugo, la nonna che ci preparava per merenda il panino con il prosciutto tagliato lì per lì. La domenica saliva dalla cucina l’odore dell’arrosto, e giù per le scale si sentiva anche quello dell’alcool per lucidare i piatti. Lucidare i piatti con l’alcool rosa, a ben pensarci, è probabilmente la prima cosa che ho imparato a fare in questo mestiere. E mi ricordo anche, nitidamente, la frescura e il silenzio dell’ingresso di casa quando rientravamo il pomeriggio tardi con i miei genitori, che avevano lavorato fino a quel momento dai miei nonni; noi piccole scendevamo dal pulmino della scuola direttamente lì, dato che a casa non ci sarebbe stato nessuno. Ho trascorso metà della mia infanzia nella trattoria di mio nonno, l’altra metà nel ristorante dei miei.

Mia madre parla di chiusura da circa tre anni. Le cose non vanno benissimo da molto più tempo, ma gli anni veramente difficili sono stati gli ultimi tre o quattro e lei è sempre stata la voce più negativa, ma pragmatica, della famiglia. Mio padre no, è sempre stato più ottimista e l’ha sempre convinta a cercare di tirare avanti. Fino a qualche mese fa, quando hanno detto basta, non ce la facciamo più.

Non mi metterò a discutere di crisi, di marketing, di imprese e di costo del lavoro, né cercherò di attribuire responsabilità e colpe. So soltanto, questo lasciatemelo dire, che i miei lottano contro gli studi di settore da quando sono stati istituiti, e contro la famigerata crisi da quando si è manifestata, ma nonostante tutto non sono mai venuti meno ai loro principi, per quanto possano sembrare scontati (e per noi lo sono, infatti): la materia prima deve essere di qualità, il servizio professionale, i dipendenti si pagano, i fornitori anche, le tasse, pur se alte, pure. Punto.

Quando ci si arrende davanti all’inevitabile, quando si decide di non combattere più, perché si pensa che non ne valga la pena, o perché semplicemente non se ne hanno le forze, la reazione non è necessariamente di rabbia o disperazione o angoscia. C’è anche quello, ma viene prima. Come le fasi del lutto: c’è il rifiuto, la rabbia, il tentativo di salvare la situazione, di contrattare con le circostanze, la paura, ma alla fine c’è l’accettazione. È così e basta. E incredibilmente a quel punto si sente un respiro diverso, sempre amaro, ma liberatorio, quasi un sospiro di sollievo: il sollievo dei vinti. Quando non si hanno più le forze, quando si combatte una guerra lunga e logorante, fatta di speranze puntualmente deluse e di vittorie così piccole da non essere mai sufficienti, arrendersi fa sentire meglio. Fa guardare le cose in un altro modo.

È così che in questi giorni ci siamo divertiti a progettare tutto quello che possiamo fare ora che non abbiamo più un’attività da mandare avanti. Tutto il tempo libero di chi non ha un lavoro, ve lo immaginate? Niente più sabati sera a lavorare, ma anzi ad uscire, andare al cinema, in teatro, oppure rimanere semplicemente a casa, tra di noi: per mia madre, che è cresciuta nella trattoria di mio nonno, sono stati i primi sabati sera in famiglia della sua vita. Niente più tour de force per preparare pranzi da cerimonia, niente più sorrisi ai clienti rompiscatole, niente più domeniche al chiodo mentre amici e parenti fanno le gite fuori porta o i pranzi di famiglia a cui noi non possiamo partecipare, niente più lavoro nei giorni in cui gli altri si divertono, niente più declinare gli inviti alle cerimonie e alle feste “perché siamo aperti”, niente più rinunciare ad allontanarsi di casa per due o tre giorni perché “al ristorante chi ci pensa?”. La prima cosa che hanno fatto i miei è stata andare a passeggio per il centro di Roma, il primo sabato dell’anno, loro due da soli. Non so da quanto tempo non lo facevano.

Poi verrà tutto il resto. Verrà la piena consapevolezza di aver perso il lavoro di una vita, di aver messo la parola fine a quasi trent’anni di qualcosa di proprio, che si è costruito partendo da poco più di zero, ma costruito davvero, con i muri reali, non solo metaforici. Qualcosa che è stato opera delle proprie mani, che è stato opera della propria vita.

Verrà, e speriamo non faccia più male di quanto non abbia già fatto. Intanto però c’è una vita da vivere.

Pubblicità

Latitanze

Mi sono accorta giusto ora che il mio ultimo post pubblicato quissù risale a più di un mese fa. Già. E anche i precedenti non è che siano così numerosi, né particolarmente prolissi come al mio solito.

Dev’essere una di quelle fasi di silenzio che attraverso di tanto in tanto, e che non forzo mai, principalmente perché sono d’accordo con una certa persona*: se le cose che fai per piacere inizi a farle per dovere, poi che senso ha farle? Per cui, me ne sto zitta. Un motivo ci sarà.

Tanto più che le mie giornate hanno subito un’accelerazione imprevista da qualche mese a questa parte, e io, dal basso della mia personalità tutt’altro che dinamica, fatico a stare dietro a me stessa.

Forse dovrei dire qualche no, di tanto in tanto.

Di conseguenza il mio status, per molti versi, è diventato la latitanza. Dal blog, come è evidente; da casa, come non manca di farmi notare mio padre; dall’università, paradossalmente: pur avendoci materialmente passato la metà degli ultimi mesi, ancora non ho aperto libro e la sessione di giugno inizia a configurarsi come una grandissima incognita, per non dire altro. Aggiungiamoci la mia latitanza mentale – metaforicamente parlando – da ogni forma di burocrazia, universitaria e non, ed ecco che avrete la mia sessione disastrata per colpa di un banale errore di compilazione. E una me già mezzo rassegnata quando era ancora disperata. Ma questa è un’altra storia.

Nel frattempo, la mia latitanza dalla salute fisica continua, ed è questo che mi sta abbattendo da circa due settimane: mal di gola, dolori, febbre, sinusite, poi di nuovo febbre, eccetera. Le mie giornate sono scandite dagli orari in cui devo prendere antibiotico, antistaminico e tachipirina, e dopo i fasti dell’anno passato ho di nuovo tirato fuori l’areosol, l’amico di un’intera infanzia.

E tutto questo perché? Perché nonostante il termometro segnasse 37.3 sono partita per passare tre giorni scarsi con un’amica che abita lontano e alla quale lo avevo promesso da tempo. Tutto-qua. Se due settimane fa non avessi preso quel treno a quest’ora non starei in pigiama a massaggiarmi la testa indolenzita e il viso gonfio e a cercare di studiare nonostante abbia perso le lezioni più importanti del corso il cui esame dovrò sostenere tra venti giorni circa.

Insomma, io a 20 anni (…ehm) non posso uscire di casa se ho due gradi in più del normale. Così è, se vi pare.

Neanche posso dire che mio padre è contento, perché ultimamente è lui che non sta mai a casa. Anzi, stasera glielo dico.

Ora però vi saluto, ché devo prendere il gastroprotettore.  Ciao.

*anche se non ricordo il post preciso. Non prendetevela con me, mi hanno fatta così.

14

I capelli bianchi che ho contato oggi sulla mia testa. Sicuramente sono di più, ma quattordici sono quelli che ho visto.

Mia madre dice che è normale, che anche lei alla mia età eccetera. Io ancora mi chiedo perché i suoi geni si siano tradotti in me in cose come questa, e non abbiano avuto invece il buon gusto di dotarmi, che so, del suo fondoschiena o delle sue gambe, ché mia madre c’avrà cinquant’anni ma con una minigonna fa ancora la sua porca figura, una di quelle che io non farò mai.

Comunque, era per ritornare a quella faccenda del crescere e dell’invecchiare e tutto il resto. Perché mi ha lasciata un po’ interdetta vedere questi fili bianchi tra i miei ricci proprio in questi giorni, pare quasi si siano messi d’accordo. Anzi, ne sono convinta: lo hanno fatto apposta.

Addio 2012: un post lungo un anno

[Nel senso che impiegherete un anno a leggerlo tutto, se ne avrete il coraggio. Se non ce la farete sappiate che non vi biasimerò, ma ci ho messo due giorni a scriverlo e adesso non lo taglio neanche se mi minacciate. Il mio è un blog prolisso, talvolta, sappiatelo].

30 dicembre 2012. La fine dell’anno si avvicina e l’unico proposito per l’anno nuovo che mi faccio è che alle vacanze natalizie del 2013 non ci provo neanche, a studiare: dormo, leggo e me ne vado a spasso, e basta. Cosa che comunque sto facendo, a parte l’andare a spasso, ché quello me lo sono proibito, un po’ per costringermi a studiare (inutile dire l’inutilità), un po’ per riposarmi, perché i giorni precedenti al Natale sono stati abbastanza caotici – più del solito, intendo. Ho girato come una trottola, e solo in minima parte per i regali dell’ultimo minuto (ché io i regali, da anni, non li faccio quasi a nessuno, e in linea di massima preferisco regalare qualcosa fatto a mano, o simbolico, o veramente utile, che poi sono anche i tipi di regali che preferisco ricevere). Le feste, poi, passate in completa immersione nella ciurma familiare, e i loro lunghi, oziosi pomeriggi di stasi mi hanno stancato paradossalmente di più. All’attività (anzi, all’attivismo, che finisce in -ismo come tutte le cose brutte), mi ci sto quasi abituando, in barba alla mia flemma; alla noia e alle chiassose riunioni familiari no, se combinate alla stanchezza non si reggono. Per cui dopo Natale mi sono dedicata a un (in)sano riposo, più mentale che fisico; solo che inattività tira inattività, pigrizia chiama pigrizia, e insomma io se mi fermo un attimo non mi ripiglio più. Quante volte avrò parlato di questa mia schizofrenia? Se mi muovo non va bene, ma se mi fermo sono perduta. Ormai, alla veneranda età di 23 anni (due mesi quasi esatti ai 24, argh) sto forse, e dico forse, imparando a conoscermi.

E in nome di questa mia rinnovata autocoscienza, chiarisco subito che i buoni propositi per me valgono più o meno quanto foglie secche. Anzi, più meno che più: almeno, quando sono disperse nel vento e io le guardo dalle finestre della mia casetta nella foresta di Sherwood, hanno una loro poesia, le foglie secche (e ci tengo a sottolineare che ho scritto Sherwood senza guardare su Google, e la cosa mi fa dare metaforiche pacche sulle spalle da sola. Pessima.)

Per cui, so già che, nonostante il buon proposito di non tentare nemmeno di studiare alle prossime vacanze, lo farò. Anche perché, come in questo caso, probabilmente starò preparando gli esami di gennaio (ahah! Preparare, quale oscura e indegna abitudine è questa, che presuppone un impegno precedente alla settimana prima dell’esame in questione?).

Perché, ebbene sì, ho ricominciato a studiare. Ci eravamo lasciati che mi ero laureata, e stiamo parlando di marzo di quest’anno, non proprio ieri. Ecco, a proposito di bilanci e altre baggianate: quest’anno mi sono laureata. Non male da dire, pare quasi una roba che vale qualcosa. Coi parenti, comunque, fa sempre effetto.

Ma dicevamo, ho ricominciato. Dopo un periodo più o meno lungo in cui ho meditato se non sarebbe stato meglio cominciare a lavorare in un call-center subito anziché aspettare altri due o più anni, per di più sborsando altro denaro, ho deciso che tutto sommato sarebbe stato meglio invece completare gli studi, se non altro per avere buoni argomenti di conversazione con cui intrattenere le persone in attesa di un operatore più esperto. Poi c’è anche il piccolo dettaglio che il mio relatore mi aveva caldamente consigliato di continuare, e un motivo ce l’avrà anche avuto. Per questi e altri motivi, quindi, mi sono iscritta alla laurea specialistica in Lingua e letteratura. Studi italiani ed europei, che, a dispetto del nome poco comprensibile, non è altro che la naturale prosecuzione della mia triennale in Studi italiani. Insomma, sempre di Lettere moderne si tratta (e per Lettere moderne, lo ripeto, intendo letteratura, non lingue. Non so perché le persone continuino ad essere convinte che io studi lingue. Per quanto, anche sullo studiare letteratura avrei i miei dub… vabbè, lasciamo stare).

Sempre Roma, sempre Sapienza. Eh si, dev’essere sindrome di Stoccolma. Solo che adesso non vivo più nella metropoli, ma faccio avanti e indietro da casa mia, quando posso; quando non posso studio a casa, o almeno questo è il piano. Il non trascurabile dettaglio del non avere una casa in affitto a Roma si tradurrà in un aumento esponenziale di stress da viaggio-in-autobus-Cotral che riverserò immancabilmente su queste pagine, sappiatelo. Da ottobre ad oggi la situazione si è risolta in un paio di giorni alla settimana, per un totale di 8 ore di viaggio, ma non sarà sempre così facile: il secondo semestre si prevede bello incasinato. Ma a questo ci pensiamo a tempo debito.

Eliminati dunque i buoni propositi di fine d’anno, che del resto ho smesso di fare più o meno da quando avevo 13 anni, o che più probabilmente non ho mai fatto (in compenso mi ci sono riempita la testa in altri periodi dell’anno – non che questo abbia significato neanche lontanamente realizzarli), possiamo passare ai bilanci? Ma anche no. Perché farlo? Che c’è da bilanciare? L’anno scorso di questi tempi o giù di lì scrivevo che il 2011 tutto sommato era stato un bell’anno: né completamente positivo, né completamente negativo, il che andava benissimo. Infatti.

Anche il 2012 si può descrivere così, per quanto mi riguarda. Volevo fare tante cose, pensavo che ci fossero delle priorità; poi mi sono trovata a farne altre, a rivalutare un po’ cos’è importante per me. A cambiare punto di vista, o almeno a provarci.

Qualche giorno fa stavo guardando un film in cui uno dei personaggi diceva che quando ci succedono le cose veramente importanti della vita, noi non ce ne rendiamo subito conto. Ce ne accorgiamo solo dopo. Lì per lì questi eventi ci capitano, ci passano sulla testa, e soltanto a distanza di tempo riconosciamo che sono i momenti che ci hanno cambiato la vita.

Io mi sono trovata abbastanza d’accordo, in linea di massima. Ma a volte, magari raramente, ci sono cose che ci succedono, che ci piombano addosso inaspettatamente, a cui siamo impreparati, e può darsi che proprio per il loro essere così strane e inaspettate ci colpiscano forte, così forte che lì per lì magari non pensiamo proprio che ci cambieranno la vita, ma che una bella botta ce l’hanno data, questo sì. Questa era proprio forte, magari pensiamo. E non deve essere necessariamente un grande evento, un trauma, un’esperienza particolare. Magari è solo un incontro, un’immagine, una parola – ci pensate, una parola? Una cosa così piccola e inconsistente.

Ecco, credo che a me quest’anno sia successo. Per cui è da qualche mese che sto cercando di seguire la strada che questa botta mi ha dato, il che spiega anche l’inusuale scarsità di chiacchiere da blog in alcuni mesi. E proprio il blog ho virtualmente sfogliato, in questi giorni, per vedere un po’ dove fosse finito il 2012. E sapete che vi dico? A me vivere un po’ tra le stanze di questi castelli piace. Mi sono quasi commossa a camminarci dentro, a rileggere cose che sembrano lontanissime e risalgono solo a pochi mesi fa. Mi piace ritrovare cose che avevo dimenticato non solo di aver scritto, ma anche di aver pensato, ed è come se le scoprissi per la prima volta, come se le avesse scritte un’altra persona. Apperò, ho pensato, a qualcuno serve ‘sto blog. A me.

Per questo volevo anche dire che quest’anno ho pure ricevuto un’onorificenza ampiamente immeritata. Trattasi della spilletta di Blog Affidabile che mi ha appuntato la proprietaria di una certa Moleskine ormai mesi fa – e converrete con me sull’ironia della cosa: dare al mio blog dell’affidabile poteva venire in mente solo a quel gran cuore di Dorotea. Infatti, tanto per rimarcare la cosa, non solo non ne ho fatto menzione ma non ho neanche seguito la prassi richiesta per meritarsi fino in fondo il premio, e cioè dedicare alla faccenda un post e nominare a mia volta altri affidabili. Però sono stata coerente e la spilla non me la sono ancora appuntata. Non l’ho fatto, in realtà, proprio perché non potevo rispettare fino in fondo le semplici regole previste: in quel momento latitavo, e quando ho avuto tempo e testa per tornare a scribacchiare mi sono accorta che diversi blog a cui avrei voluto appuntare la spilla avevano chiuso, purtroppo, i battenti, o latitavano molto ma molto più di me, o erano gli stessi che avevano nominato me (cioè, lo stesso; e avevo i miei dubbi che si potesse restituire l’onorificenza al mittente) o che avevano già la spilla e non avrebbe avuto senso conferirgliela nuovamente, se l’obiettivo è far conoscere nuovi blog. Il punto era che io, di nuovi blog, non ne conoscevo; e per la prima volta da tempo ne leggevo (e ne leggo) pochi, pochissimi, per vari motivi. Ergo, mi appunterò la spilletta solo quando finalmente avrò anch’io la mia vera lista di affidabili; il che potrebbe anche non valere niente, come proposito (per l’appunto), dato che a quel che ho capito è un’iniziativa che si ripete ogni anno e quella del 2012 ormai è andata. Ma a Dorotea almeno il buon proposito lo devo. Se non altro perché mi ha fatto riflettere sull’utilità di uno strumento, il blog (che quest’anno ha compiuto cinque anni, per giunta) che sì, per quanto mi riguarda serve prima di tutto alla sua autrice, alla sua necessità di specchiarsi in sé stessa e negli altri; ma a quanto pare un po’ anche agli altri serve, e del resto il bello di scrivere è anche e soprattutto farsi leggere.

Ciononostante, ho lasciato un po’ di cose in sospeso nel blog – sempre parlando di affidabilità. Però prometto solennemente – altro buon proposito – di chiudere tutti gli argomenti aperti al più presto.

Insomma, non dovevo fare buoni propositi e li ho fatti; non dovevo fare bilanci, e anche quelli, invece, ci sono. Perché, tutto sommato, quest’anno ho l’impressione di aver iniziato ad imparare molte cose. Solo iniziato. Per impararle davvero ci vorrà un po’, ma iniziare è già qualcosa. Ho fatto e visto tante cose. Ho scalato montagne metaforiche, e ne ho scalato pure una vera, di 2000 metri, che per me è una cosa da andarci fierissima. Ho incontrato persone, cercando di incontrarle davvero e non solo in superficie. Ho iniziato a lasciar andare altre cose, a perderle, se mi impediscono di essere felice; a svuotarmi. Ho collezionato definizioni e decisioni, e anche soddisfazioni. Ho preso quello che sono e l’ho spinto avanti, a volte vincendo la paura, o forse l’insicurezza, e sono stata a vivere l’effetto che fa. E vivremo l’anno prossimo che effetto continuerà a fare.

Invece adesso, in questo preciso momento, non mi resta che preparare la borsa per un paio di giorni che passerò fuori casa da amica MF, che ha deciso di scuotermi dal torpore e di portarmi a vedere i fuochi d’artificio romani la notte di Capodanno. Brava ragazza. Io avevo quasi la tentazione di passarla sul divano davanti al caminetto, circondata di cioccolata e di poche, scelte persone note per la loro tranquillità (ma chi?), nel completo silenzio, fatta eccezione per le voci dei protagonisti di Harry ti presento Sally mandato a ripetizione. Ah, che pace. Ah, che misantropia. Guardalì le reazioni alla vita, alle volte.

Buon 2013.

Cose che (non) sto facendo – Prima puntata

Non ho molta voglia di scrivere, ultimamente. Ve lo dico perché magari non lo avevate capito. Mi piace parlare chiaro, ammé.

Però il blog arretrato fa tristezza. E poi il mio egocentrismo mi spinge inesorabilmente a sbrodolare addosso al prossimo tutti i dettagli della mia trascurabile esistenza, e dopotutto sto blog a che serve sennò? E quindi.

Quindi tempo fa scrissi che c’erano delle novità a proposito della mia tesi, che ci stavo ancora lavorando nonostante mi fossi ormai laureata. Parliamo di tre mesi fa, ma io me la prendo comoda – anzi, comodissima – quando non ho scadenze. Se non sono sotto pressione, io, non combino niente. Mi servono le minacce. Comunque, ci ho lavoricchiato su sta tesi, davvero poco perché dovevo modificare due scemenze, e adesso è pronta. Testo definitivo, rilegatura definitiva, non ci si mette più mano. Il mio relatore ha visto, sottoscritto e approvato. Mi ha dato l’indirizzo e sommarie indicazioni su come dovrei scrivere la lettera d’accompagnamento – mi mandano in crisi, ‘ste cose, e dire che scrivere dovrebbe essere l’ultimo dei miei problemi.

Ma insomma, che ci devo fare con questa tesi? Presto detto: a breve (cioè quando avrò messo insieme una lettera che non faccia schifo) la copia riveduta e corretta con tanto di rilegatura in seta verrà spedita al direttore del Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati, ovvero il principale centro di studi su Giacomo Leopardi al mondo. Questo centro iperspecializzato ha una biblioteca in cui vengono raccolte tutte le pubblicazioni degne di nota su Leopardi di cui si abbia notizia ed è frequentata da studiosi italiani e stranieri (o almeno, così dicono). Insomma: il mio relatore vorrebbe che la mia tesi venisse inserita in questa biblioteca, e quindi io, fiduciosa, invio. Inutile dire che è un onore, soprattutto perché è una tutto sommato misera tesi di triennale, scritta in pochi mesi da una che fino a qualche anno fa di Filologia non aveva neanche sentito parlare e ancora oggi è ben lungi dall’essere un’esperta di Leopardi. Non sono una studiosa, né una professoressa e continuo ad essere sinceramente perplessa di fronte alla faccia soddisfatta del mio relatore, ma mi fido di lui, che non è propriamente l’ultimo venuto; per cui procedo – e già immagino il mio plico rosso infilato nell’angolo più remoto dello scaffale più alto a prendere polvere per i prossimi decenni, o in alternativa usato come zeppa per il tavolo. Ma già quello sarebbe tanto (Non crederai mai a quello che sto per dirti! La mia tesi su Leopardi in questo momento sai dov’è? Infilata sotto la gamba del tavolo del portiere del Centro Nazionale di Studi Leopardiani! Ma ti rendi conto?) Insomma, sono contenta. Anche se non la dovesse leggere nessuno all’infuori del direttore (soprattutto perché il direttore in questione è – manco a dirlo – uno dei maggiori studiosi italiani di Leopardi e lo cito più volte anche nel mio lavoro), è una notizia di quelle adesso telefono a tutti e lo scrivo sui muri. E infatti la mattina in cui mi fu comunicata procedevo a balzelloni mentre parlavo al telefono con la mia mamma, che lì per lì non aveva propriamente afferrato la portata della cosa.

lamiamamma: Ah, ma quindi ci devi lavorare ancora… (tono sconsolato da “povera figlia mia”).

me: Mamma… ma chissenefrega?! Hai capito quello che ti ho detto?…

Aveva colto solo il lato “altro lavoro da fare per lei” della cosa. Strano come funzioni la testa delle mamme, a volte.

E questa era la famigerata notizia che dovevo dare ormai da mesi.

Nel frattempo però ho fatto anche altro. Essendo una dottoressa disoccupata in attesa di capire, fra l’altro, cosa fare della propria vita, ho pensato che almeno fosse il caso di tenersi impegnata per non stare in casa a fare la muffa. Già, ma cosa sto facendo quindi? Lo scopriremo nella prossima puntata di Cose che (non) sto facendo, la fiction estiva di Castelli in aria. A presto – spero.