Se c’è la salute

Sono cresciuta a suon di se c’è la salute, c’è tutto, o, come mia madre mi ha ricordato proprio poco fa, tanta salute e guai con la pala, diceva mio nonno, quello saggio grande buono che io ricordo saggio grande buono perché è morto quando avevo sette anni e nella mia testa rimarrà sempre così cristallizzato nella sua perfezione di nonno che regalava gelati e mi faceva dormire sulla sua pancia.

E certo ha senso questo mettere al primo posto la salute fisica, personale e di chi ti sta accanto, è frutto di millenni di saggezza popolare, ché per i guai di tutti i tipi una soluzione c’è sempre, ma per quelli di salute cosa si può? Niente, e infatti il mio nonno saggio grande buono se l’è portato via il tumore  – o le terapie a cui si è sottoposto per combatterlo, ancora non l’ho capito, ma non è poi così rilevante ai fini del discorso, anzi ai fini di niente, ormai.

E quindi di fronte a questo, di fronte alla sofferenza che rende impotenti – ti vuol dire il detto popolare -, a che giova perdersi dietro i crucci di tutti i giorni, ai problemi quotidiani, che una soluzione magari non ce l’hanno proprio sempre sempre, ma almeno la speranza che tale soluzione si trovi? C’è ben di peggio. Fa sempre bene pensare che c’è di peggio. Fa recuperare la prospettiva. Pensa te che brutto, dover pensare al peggio per stare meglio.

Ecco, io sono cresciuta, tra le altre cose, con questa convinzione che la salute sia il bene supremo. E mica sbaglio, ho ragione. Del resto, millenni di saggezza popolare vorranno pur dire qualcosa.

Però da un po’ di tempo a questa parte non mi convince più così tanto. Non che non lo pensi più, ma mi perplime un po’. E non è solo perché a volte le preoccupazioni la salute te la tolgono anche quando ce l’hai – ormai è chiaro -, né perché, anche se in salute, la qualità della vita non è il massimo se non sai come arrivare a fine mese  – oppure lo sai, ma è un lavoro che fai solo perché non hai alternativa – oppure hai problemi affettivi e familiari  – e così via. In realtà, quello che non mi convince è che si possa mettere da parte praticamente tutto, purché ci sia la salute. Tutto il resto è irrilevante, o secondario. Tutto il resto è – paradossalmente – il meglio; magari averceli questi problemi!, si dice. I problemi sono sempre ben altri, di solito più gravi, di solito di salute; insomma, il peggio.

Se si scampa il peggio, allora si sta automaticamente bene.

Mh, no. Certo, come prospettiva aiuta; ma non mi convince. Io non voglio solo scampare il peggio: io voglio stare bene, voglio stare al meglio.

E quindi stasera ho pensato questo: secondo me il detto ha ragione, non sbaglia una virgola. Però ha ragione solo se la salute di cui parla non è solo quella fisica. Perché di malattie ne esistono tanti tipi, e di varie gravità; per cui la salute è anche quella dello spirito, o della mente, del cuore, quel che vi pare, quella lì. E quelle malattie le trascuriamo sempre, troppo.

Tutto questo per dire che non sto male (fisicamente), no.

Ma non sto neanche bene. No.

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Le giornate coperta

Le giornate coperta sono quelle giornate in cui, a un certo punto, vorresti che tutto venisse seppellito non dico sotto un velo pietoso, no, proprio sotto una bella coperta di quelle pesanti, che tengono caldo e danno sicurezza: stendi la coperta, tutto va a posto e grazie tante. Le giornate coperta non sono quelle in cui va tutto storto fin da quando si posa a terra il piede dal letto; no, quelle sono altre, si possono chiamare in vario modo, anche semplicemente giornate-ma-perché-non-mi-sono-girata-dall’altra-parte, dato che la cosa migliore da fare sarebbe, appunto, spegnere la sveglia, voltarsi dall’altra parte e continuare a dormire fino al giorno dopo – e tu lo sai, ma ti ostini ad alzarti e ad affrontarle lo stesso, ché ti tocca.

No, le giornate coperta sono più infide: iniziano bene, magari nel migliore dei modi, oppure iniziano normalmente, e poi piano piano, ora dopo ora, ti rendi conto che stanno andando sempre più… male. Male, e basta. Hai un appuntamento che sembra essere risolutivo ma invece non concludi niente, hai bisogno di una cosa che al negozio non trovi, la macchina ti lascia quasi a piedi, passi due ore al computer a informarti per un corso che si rivela più complicato del previsto e non sai nemmeno se ti servirà mai, lo strumento infernale con il quale si fa salire la legna per il camino quasi si rompe e devi fare due volte sue e giù per riempirlo, accendi il pc per scrivere la tesi e ti accorgi che il documento con l’ultimo salvataggio è rimasto su quello del tuo ragazzo a chilometri di distanza, e WordPress neanche funziona a dovere. E così arrivi alle sei di sera che vorresti solo una bella coperta, calda e consolante, sotto la quale ficcare tutto e riposare finalmente la testa e il corpo, senza pensare più a nulla. Chiusa in casa, tu e la coperta, e tutto il mondo fuori.

Ma il punto è che, in realtà, tutto questo non ti toccherebbe più di tanto in una giornata di ordinaria follia, in una giornata media in cui te ne capitano poi poche meno, ma insomma siamo lì. Le giornate coperta richiedono la coperta perché in realtà quello che si vorrebbe è accoccolarsi e lasciare che scivolino via i fantasmi che popolano il pensiero, quelli nascosti, che anche se stai pensando ad altro o stai facendo altro sono lì che passeggiano, dietro le quinte di ogni azione o parola, e non ti lasciano.

Sono lì che aspettano che tu ti decida a farci i conti, a elaborarli, a digerirli. Ti stanca molto, questa lotta per tenerli lontani, per permetterti di fare quel che devi, per trovare le motivazioni. Ma non è colpa tua; ci sono e basta. E quando tu non ci pensi, sono loro a pensare a te.

Le giornate coperta sono così: va tutto male, ma quel che davvero sta male è quel punto imprecisato all’altezza dello stomaco, che a volte scende verso la pancia, a volte risale fino al cuore, alla gola, agli occhi, e che vorresti poter curare con una semplice coperta – e un buon libro, già che ci siamo; e una confezione di gelato, per buona misura.

Ma siccome lo so, io, che le giornate coperta non si risolvono mai con una semplice coperta, sono qui che mi intestardisco a tenere fede almeno ai miei impegni, a non lasciarmi stressare troppo da cose irrilevanti, ad ascoltare musica allegra che, ho scoperto, è molto più utile di quella malinconica nelle giornate coperta.

E mi scopro a pensare con più leggerezza, a sorridere di me stessa, di quanto posso essere ridicola nel mio riflettere su cose tremendamente serie, e non so perché questo mi ricorda, al rovescio, di quanto sarò parsa ridicola quando ho passato quasi mezz’ora a decidere attentissimamente e serissimamente quale maschera di carnevale comprare e poi ho preso un paio di occhiali rossi giganti che mi hanno invidiato tutti i bambini di Piazza del Popolo il giorno di martedì grasso.

Salvare

«Anche tu vuoi sempre salvare gli altri?»

«Sì, ma senza riuscirci mai.»

«E meno male.»

«Perché?»

«Perché altrimenti ci convinciamo di essere noi quelli che li salvano.»

Avevo scritto un post abbastanza lungo, qualche giorno prima della fine di dicembre scorso. Un elenco di cose che penso di aver imparato nell’anno appena trascorso, appuntate sul momento, le prime che mi venivano in mente. Poi sono state giornate un po’ piene – quest’anno a Capodanno ho lavorato, e sono una delle poche persone che conosco ad essere contenta di lavorare il 31 dicembre -, non avevo tempo di pubblicarlo, poi è arrivato l’anno nuovo e così siamo a febbraio. Di già.

E fra tutto quello che ho pensato mi è tornato in mente questo dialogo, che avevo tenuto custodito tra le pieghe di queste pagine senza svelarlo mai, perché secondo me esprime una grande verità, e aspettavo il momento giusto per parlarne. Il giorno in cui questo dialogo è avvenuto risale ormai a due anni fa, come sono quasi due anni che ho tra le mani qualcosa di così prezioso che a volte mi spaventa persino.

Quel dialogo mi piace perché racconta una parte di me, quella che vuole salvare gli altri, che pensa di poter avere il controllo delle situazioni – pure quelle degli altri -, che vuole dare una mano pure quando nessuno gliel’ha chiesta, perché pensa di poter migliorare la situazione, sempre. E la risposta che ho avuto mi ha lasciata così, senza parole, perché è così disarmante e vera che può essere stata detta solo da qualcuno che mi è simile come non pensavo.

Ma ultimamente mi piace anche perché vuol dire che le uniche persone che possiamo salvare siamo noi stessi, e spesso non ci riesce nemmeno tanto bene. E mi sa che questa è una delle cose importanti che ho imparato durante l’anno che si è appena chiuso, e adesso sta a me capire cosa farmene di questa consapevolezza.

E, infine, mi piace perché è una delle cose che fa capire, ogni giorno di più, che persona meravigliosa ho incontrato su quell’autobus tanto tempo fa.

Trovare il posto

La scorsa notte ho sognato. Non è una notizia: come chiunque, sogno tutte le notti, ma a differenza di molti, ricordo quasi sempre quel che ho sognato, spesso con grande vividezza. Solitamente posso raccontare quel che ho sognato con una certa precisione. E sono sogni spesso lunghi, e articolati. A volte la sensazione dominante del sogno – ce n’è sempre una – mi rimane così attaccata addosso da condizionarmi tutta la giornata, e trascorro tutto il tempo che mi separa dal nuovo sonno con i fotogrammi che mi appaiono brevemente davanti agli occhi nei momenti più impensati, e con un sentimento così remoto da non sembrare mio che mi si appiccia dentro come una sostanza vischiosa che deforma ciò che vedo e che provo.

La scorsa notte ho sognato, ma non si è trattato di un sogno così intenso. In compenso, è stato un altro dei grandi classici del mio inconscio: mettere in scena una me stessa vista da fuori, una me stessa completamente – o, in ogni caso, molto –  diversa dalla realtà. Stavolta ero una liceale spigliata e menefreghista (cosa che non sono mai stata) che salta interi giorni di scuola senza preoccuparsi eccessivamente (men che meno) e che si fa beccare da un poliziotto con la sigaretta in bocca su un autobus (mai stata una fumatrice, tantomeno sugli autobus pubblici). Senonché, di fronte alle richieste dei documenti da parte del poliziotto, qualche rimembranza della “vita reale” sembra riemergere: nel sogno inizio a giustificarmi dicendo che è la prima volta che mi capita una cosa del genere, che in realtà sono una brava ragazza, che ho ottimi voti, che è un periodo così.

E dentro di me penso, ma come ho fatto a cacciarmi in questo casino? E però che diamine, penso anche; cosa ci sarà mai di tanto grave? Ma perché tutti si agitano tanto? In fondo ho avuto solo un po’ di sfiga, e che palle adesso dovermi giustificare, ma tutto sommato mi scopro a non pentirmi affatto di aver saltato la scuola, di essere andata in giro a fumare con le amiche, ma soprattutto di non essermi preoccupata di tutto questo, di fare qualcosa di sbagliato, di irreparabile.

Questo mio essere così deliziosamente incosciente, nei miei sogni, al contrario di come sono in realtà, dovrebbe dirmi qualcosa. Ma non è questo quello di cui volevo parlare. Il punto è un altro; è quel mio confondersi di realtà e sogno, nel momento in cui, di fronte alla prospettiva del casino che mi si profila davanti, inizio a ricordarmi di me stessa, e a chiedermi come è possibile che l’unica volta in cui vengo meno al mio autocontrollo, l’unica volta in cui mando al diavolo le regole,  ecco che proprio quell’unica volta, come nella migliore legge di Murphy,  mi beccano; proprio io che normalmente sono tutt’altro. E non mi riconosco più; sono confusa, perché non avrei mai pensato di poter essere così diversa. Che mi succede?, mi chiedo. Perché l’ho fatto? Come è possibile che io possa essere anche così?

Ecco, quella stessa domanda me la sono fatta oggi, poco fa. Del tutto lucida, senza alcunché di onirico. E mi è tornato in mente quel sogno all’istante. Perché, davvero, ci sono cose che mai avrei pensato di essere, e invece pare che lo sia. Proprio io che mi credevo tutt’altro. Proprio io che credevo mi venisse così facile, essere in un certo modo.

Proprio io che volevo, fortissimamente, essere tutt’altro, e pensavo solo di dover aspettare il momento in cui questa me sarebbe sbocciata, avrebbe trovato finalmente il posto, nell’incavo di un braccio, per esserlo.

Ottobre, 9

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Il giorno in cui ho superato –  e molto meglio di quanto sperassi – il mio ultimo esame – non di quest’anno, ma dell’intero corso, e spero anche dell’intera mia carriera universitaria – ho inviato un sms a una cara amica che non vedevo da tempo, la stessa con cui ho brindato la sera del mio ultimo esame di triennale, la quale mi ha dato precise indicazioni: bevi; e poi canticchia tra te e te: “che sensazione di leggera follia…”. Ho convenuto che in effetti non la si poteva contraddire.

Ho iniziato con il secondo punto, ma al primo non ci sono arrivata, non subito: quella sera sono rimasta spalmata sul divano di casa di Prince, vale a dire l’uomo che mi sopporta da più di un anno a questa parte, a guardare la tv e ad addormentarmi sulla sua spalla.

La bevuta di rito si è avuta la sera successiva, sempre con la cara amica, che è ormai ufficialmente colei che mi offre la birra quando finisco gli esami (e ora, ripeto, spero basti). Una bella serata di ottobre, fatta apposta per festeggiare – per rivedersi con la scusa di festeggiare, e per scherzare e per raccontarsi, e che poi diventa piena di discorsi su cose importanti, tipo le prospettive, tipo il futuro, tipo le relazioni, le situazioni difficili, le sofferenze provocate senza volerlo, l’amore che si da come si può, la rabbia, gli errori, le idee che si cambiano, e quelle che non si cambiano. Queste cose umane, queste cose – mi viene da dire- un po’ da grandi.

Queste cose che non ti aspetteresti di affrontare la sera che sei seduta su un gradino nel rione Monti a celebrare, come un rito, la fine degli esami, e che dovrebbe essere spensierata, leggera, e tutta tua; ma poi ci pensi e invece è proprio la sera giusta, perché la fine degli esami – di questi esami – è soltanto l’inizio di qualcos’altro – qualcosa, mi viene da dire, un po’ da grandi. E se quella sera di tre anni fa, quella passata sempre seduta su un gradino, ma da un’altra parte di Roma, a San Giovanni, sotto casa di cara-amica, perché andare più lontano era impossibile per la stanchezza appesa addosso come un panno bagnato, se quella sera è stata sì spensierata, leggera, mia, forse è perché  il futuro sembrava ancora lontano, e così i discorsi seri, le prospettive, e persino gli altri, l’altro da me, che invece ora è così vicino, pare. Forse stiamo (sto) diventando (un po’?)  grande.

Intanto, mi segno questa data (noveottobreduemilaquattrodici), e il prossimo obiettivo è la tesi, e per non smentirmi mai sono indietro in modo pauroso (giusto per dimostrare a me stessa che, tutto sommato, dovrei ancora lavorarci su questa faccenda del diventare grande). Credo di essere stanca, e nonostante questa volta mi sia scelta sia il relatore che volevo da sempre, sia l’argomento, ci sono momenti in cui pregherei di allontanare da me questo amaro calice e lasciarmi laureare in santa pace con una tesi sulle merendine. Ma pare non si possa, quindi mi faccio forza pensando che se sono riuscita a superare un esame di latino con il massimo dei voti ora posso tutto, anche scrivere una tesi, che per di più mi piace, senza averne la minima voglia e a tempo record!

Spero.

[Per fortuna c’è una spalla su cui posso riposarmi.]