Come ha scritto più di qualcuno, sapevamo cos’era successo. Sicuramente ne abbiamo anche discusso, magari con qualcuno al bar, abbiamo letto i giornali. Ci eravamo fatti un’idea. Sapevamo che c’era un’ombra nera sui fatti di Genova del 2001, che c’era stato un morto, le violenze per strada, la tensione. Ricordavamo le immagini degli scontri, le edizioni dei telegiornali, la comparsa di quest’espressione, “black bloc”, un nome che fa paura ancora oggi e viene evocato praticamente ad ogni manifestazione. Forse abbiamo anche visto ricostruzioni in tv, o trasmissioni cosiddette “di approfondimento”, che è ben raro riescano ad approfondire qualcosa. Sono cose che, sempre come ha scritto qualcuno, offrono un’informazione “setacciata”, e spesso intenzionalmente falsificata. E le rare eccezioni finiscono per confermare la regola.
In realtà non sapevamo un bel niente. Sono le immagini, che rendono tutto più reale di qualsiasi frase scritta – o detta -, a farci scoprire che anche quello che sapevamo, beh, non lo sapevamo poi così bene.
Per cui un sabato sera vai al cinema, ti siedi in una sala piccola e praticamente vuota, e sei catapultata in interminabili minuti di pestaggi, violenze, umiliazioni, torture.
Lo sapevate che in Italia non è previsto il reato di tortura?
Sei lì e sobbalzi ad ogni colpo, e ti costringi a tenere gli occhi aperti anche se nella tua testa stai pensando quasi quasi adesso mi alzo e me ne vado, ma chi me lo ha fatto fare? E invece bisogna farlo. C’è chi crede che il film vada trasmesso nelle scuole. Non so, io non riesco a smettere di pensarci da tre giorni, se lo avessi visto a 16 anni forse non ci avrei neanche dormito. Probabilmente avrei tutta un’altra considerazione delle parole Forze dell’Ordine, della parola Stato.
Poi arrivi raggelata ai titoli di coda e scopri che la maggior parte dei reati di cui sono accusati i responsabili dei fatti della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto (non so quali delle due sequenze sia peggio) sono andati o andranno tra poco in prescrizione. Una rapida ricerca a casa (ma perché non me ne sono mai interessata prima? Perché ho l’impressione che non ne abbia mai parlato nessuno?) e vieni a sapere che tutti sono ancora al loro posto, alcuni addirittura sono stati promossi. Nessuno ha mai chiesto scusa, nessuno si è mai preso la responsabilità di quanto accaduto. Amnesty lo ha definito, come recita la locandina del film, “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Eppure la mia impressione era, ed è ancora, che sia tutto così sospeso, ovattato, sussurrato: me ne rendo conto solo ora. Me ne sono resa conto all’uscita dal cinema, guardandomi intorno e chiedendomi come fosse possibile che non urlassero anche i sassi, che la gente camminasse ignara, che anch’io abbia camminato ignara e che continuerò a farlo, perché comprendere fino in fondo quel che è stato non è possibile da parte di chi non lo ha vissuto.
Sono passati dieci anni: dieci anni ci sono voluti per parlarne, per mostrare qualcosa al di fuori dell’aula di un tribunale, per metterci sotto al naso la verità; per cominciare – cominciare soltanto – a fare i conti con quello che è successo. Ferite non ancora chiuse? Di queste ferite sapevamo a malapena l’esistenza, come potrebbero essere chiuse? In un’intervista il regista, Daniele Vicari, ha raccontato di alcuni ragazzi e ragazze tedeschi (inutile dire che le donne hanno un punto di vista particolarmente drammatico della vicenda, e chi ha visto il film lo sa) che dopo aver visto il film ci hanno tenuto a ringraziarlo “perché adesso la gente ci crede”. Non riuscivamo a crederci, è vero. Non ci rendevamo conto.
Sapevamo ma non abbastanza, e quel che sapevamo lo abbiamo dimenticato. Un’amnesia collettiva, un’incredibile ignoranza di massa. Mi chiedo dove sia lo scandalo di proporzioni epiche che sarebbe dovuto scoppiare, dove le proteste, le domande fatte ad alta voce e non soltanto al proprio riflesso o a facce familiari e altrettanto sconvolte. Ma poi penso che in Italia gli scandali lasciano – sempre, sempre – il tempo che trovano: basta dare alla gente il tempo di dimenticarsene.
Un film è sempre un film, ma a volte non è solo un film. A volte è una gran tranvata in piena faccia, è la consapevolezza agghiacciante dell’impunità della violenza e della sopraffazione anche in uno Stato che si definisce democratico. È la sensazione che fascismo sia una parola uscita dall’ambito politico per diventare la definizione di uno stato della mente, di una follia sia individuale che collettiva, forse la più adatta a definire la banalità del male. È lacrime di rabbia e orrore quando le luci si accendono, è il senso di nausea quando sei a letto e pensi e cerchi di fare i conti con il tuo senso di colpa e con la tua vergogna, quella di essere non solo un cittadino italiano, ma un essere umano.
Ma è anche la voglia di sapere, di riflettere, di cambiare il proprio punto di vista, di parlarne. Di ascoltare, finalmente; per capire, almeno fin dove è possibile, e rendere almeno questa giustizia a chi cerca di dire la verità da dieci anni. Che poi sia vero che ricordare serve a non ripetere gli errori del passato, questo è tutto da vedere.
I fatti del G8
I processi
Quattro domande senza risposta
Quando la polizia fa da supplente alla politica