Quattordici anni dopo

Segno la data quassù, perché, come sa chi mi legge da un po’, è un argomento che mi sta a cuore.

La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per i fatti avvenuti alla Diaz durante il G8 di Genova. L’Italia è stata riconosciuta colpevole di aver violato l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.

La Corte, nello specifico, ha condannato l’Italia per tortura, ha stabilito che ha una legislazione penale inadeguata perché non prevede tale reato e che non ha nemmeno delle norme in grado di prevenire in modo efficace il ripetersi di tali possibili violenze da parte della polizia. Il problema, si legge nel comunicato stampa della sentenza, è «strutturale». [IlPost]

Questo è avvenuto grazie ad Arnaldo Cestaro, un uomo di 76 anni che non ha mai ottenuto giustizia e probabilmente mai la otterrà. Spero almeno che potrà vedere con i suoi occhi il giorno in cui l’Italia approverà una legge che riconosca il reato di tortura e che impedisca allo Stato di legittimare la sua stessa violenza.

La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per il massacro alla scuola Diaz – Il Post

Accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro – Ansa

Cos’è successo nella scuola Diaz – Internazionale

Perché in Italia tutti hanno paura della polizia  – Internazionale

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Stagista perché

C’è sempre quella manciata di cfu (crediti formativi universitari, o anche: la morte) che ti manca per completare il quadro del fottuto pds (piano di studi, o anche: l’INFERNO) e che non sai mai come dovrebbero essere coperti. Ti piazzano lì quei 2, 4, 6   – la cifra cambia di corso in corso – di aaf (altre attività formative, o anche: maccheccazz…?) e nessuno che ti sappia dire cosa mai dovrebbero significare, cosa dovresti fare, ma soprattutto perché. Quest’anno i 6 crediti che mancano sono classificati come “avviamento al mondo del lavoro”, il che significa che se vuoi laurearti sarebbe bene che andassi a cercarti uno stage o tirocinio rigorosamente non retribuito che copra almeno 150 ore di attività, letto, sottoscritto e approvato dalla facoltà. L’alternativa è seguire uno o più laboratori universitari (il numero dipende dal valore in crediti sonanti), di quelli a numero chiuso perché se siamo in più di dieci giustamente non è un laboratorio di esercitazioni ma un corso come tutti gli altri.

Quest’anno io mi sono mossa per tempo. Era solo ottobre quando mi sono messa in moto per capire dove raccattare questi pochi, maledetti (ma non certo subito) crediti. Potevo scegliere tra due alternative, entrambe con lati positivi e negativi: lo stage è obiettivamente più interessante, fa curriculum e soprattutto consente di uscire finalmente fuori dalle aule e fare un po’ di esperienza, ma trovarne uno è uno sbattimento senza pari (non sembra, ma oggi le aziende non ti vogliono neanche gratis, soprattutto le case editrici), fa perdere un sacco di tempo, è potenzialmente un peso che rallenta l’università e manco ti pagano. Il laboratorio è più comodo (ammesso che si riesca a iscriversi in tempo), basta andare in facoltà come al solito e scrivere qualche relazione, e alla fine non fa neanche media… però ci sono dei contro che possono essere riassunti in un’espressione breve ed efficace: e che palle. Insomma, bisognava fare una scelta. E io ovviamente ho scelto….

Entrambi. Dopo aver passato due mesi a mandare curricola, ho iniziato prima di Natale uno stage in una casa editrice romana, mentre al secondo semestre seguirò il laboratorio del mio relatore (il motivo per cui lo seguo, come avrete capito, è racchiuso nella parola relatore.)

La casa editrice è questa qui. Pubblica una rivista culturale e letteraria, Storie, ma ormai lavora prevalentemente online, tra il sito e Facebook. Tempo fa seguii un loro corso di scrittura a distanza, e non andò male. E anche ora la mia occupazione è scrivere, cosa che non mi dispiace. Insomma, tutto questo per dire due cose:

1. ma perché  mi complico la vita?

2. Questi sono i post del mio sacco: se vi piacciono (o almeno se non vi fanno proprio schifo schifo) laiccate. Poi se volete laiccate anche la pagina Facebook di Storie, ma soprattutto condividete, condividete, condividete. O anche no; del resto, se avete dubbi sul valore di una che scrive “laiccate”, non posso che darvi ragione.

Eve Arnold, una delle prime reporter in mostra a Torino

I testamenti dei grandi scrittori: Shakespeare, Francis Drake e Jane Austen

Jules Verne: un manoscritto inedito ritrovato a Nantes

Apollinaire censurato (di nuovo) in Turchia

David Foster Wallace, la sua vita diventa un film

Kurt Vonnegut: da dove prendo le idee? Dal disgusto per la civiltà.

Reatini del mondo, unitevi (semicit.)

C’era una volta una ridente cittadina del centro Italia chiamata Rieti. Una cittadina dalla lunga storia, le cui origini si confondono con quelle di Roma – che da parte sua iniziò davvero bene i rapporti con le popolazioni sabine fregandogli le donne (forse avremmo dovuto capire quel che c’era da capire sin da allora, son cose che.) Data la sua posizione geografica è stata definita come l’ “Ombelico d’Italia”, titolo che le è valso una scultura a forma di caciotta in una storica piazzetta del centro e il perdurare della completa indifferenza nei suoi (della città e della caciotta) confronti. Abbastanza vicina a Roma da essere diventata quasi un quartiere dormitorio per i pendolari, lavoratori o studenti che siano, ne è ancora troppo lontana, se consideriamo che è l’unica delle provincie laziali a non essere collegata con la capitale tramite una semplice ferrovia. Quasi nessuno ne conosce l’esistenza, e se la conosce non è per buoni motivi nel 95% dei casi. Il restante 5% è equamente diviso tra coloro che hanno qualche conoscenza della vita di San Francesco e qualche estimatore di boschi, acque e aria pulita – tutti elementi che, in ogni caso, ci stiamo impegnando a smerdare in vari modi, primo fra tutti la monnezza. E poi ci sono quelli che la conoscono perché ci abito io, of course.

Date queste premesse, non stupisce che la città sia la più depressa  d’Italia (in senso economico, ma non escluderei anche l’altro, di senso) e che sia stata scelta da CGIL e compagnia come sede della manifestazione nazionale del Primo Maggio di quest’anno – sempre bello quando le città fan parlare bene di sé stesse.

E i cittadini? Se le cose vanno così male, perché non si danno da fare? Perché, cari e affezionati lettori, l’uomo è uno strano animale. In particolare l’italiano. In particolare il reatino. Perché la reatinità è la quintessenza dell’italianità: lamentarsi (come sto facendo io ora) e poi aspettare che qualcun’altro risolva il problema, continuando a sperare, sotto sotto, che questo qualcun’altro non si faccia mai vivo perché, in fondo in fondo, le cose stanno bene come stanno e cambiare è faccenda che richiede tempo e lavoro.

Ma lasciamo da parte questo argomento, che sarebbe cosa lunga affrontare. La notizia di cui volevo mettervi a parte è che ormai un paio di settimane fa, inaspettatamente, questa città ha avuto un sussulto di cambiamento: al ballottaggio per le elezioni comunali ha vinto, anzi: stravinto, tal Simone Petrangeli, ciovane avvocato dalla spiccata parlata reatina che ha portato al comune una giunta di centrosinistra dopo ben 18 e dico diciotto anni di amministrazione di centro destra.

L’evento è già di per sé positivo, indipendentemente dallo schieramento politico: se dopo vent’anni in cui le stesse facce e le stesse teste hanno portato la situazione ad essere quella attuale, qualsiasi nuova proposta non può che essere ben accetta. Effettivamente, questo è proprio uno di quei casi in cui fare peggio è davvero difficile. Non che il nuovo sia garanzia di successo: già si parla di commissariamento perché il neosindaco si è reso conto che il buco di bilancio è in realtà una voragine di proporzioni epiche, e in effetti mi chiedo come ne verrà fuori.

Ma non è questo il punto. Il punto è che questo ciovane (37 anni) poco o affatto conosciuto dal reatino medio, ha messo su una campagna elettorale che, a quanto pare, è stata vincente. Parlando dei e ai giovani, ma anche alle famiglie; puntando sulla trasparenza e la legalità; manifestando l’intenzione di affrontare i veri problemi della città, senza ripescare la nenia della ferrovia Rieti-Roma che è il tradizionale argomento di campagna elettorale dagli anni ’70 ad oggi; strizzando l’occhio ai cattolici anche, il che non guasta. Ma soprattutto incentivando la partecipazione dei cittadini, con slogan come “Diventiamo sindaco”, “Ora Puoi” e “Mettici del tuo”, attirando così anche una buona fetta di elettorato di centro destra, i cui rappresentanti politici hanno dimostrato da tempo di vivere in un altro mondo rispetto a quello dei cittadini (Pdl style, you know).

Ed è a questo proposito che vi mostro un paio di video che secondo me meritano davvero. Io non ho seguito dal vivo la campagna elettorale, perché Rieti non è il mio comune, è la mia provincia; ma pare che questa iniziativa abbia riscosso un enorme successo. Puntando infatti su un aspetto tra i più negativi della città, quello dell’emigrazione cronica di giovani e non solo, lo staff dell’ormai neosindaco ha lanciato l’iniziativa “Reatini nel mondo”: studenti o lavoratori che vivono fuori Rieti potevano mandare videomessaggi di sostegno in cui descrivevano la loro vita e inviavano proposte per la città, facendo nei fatti campagna elettorale loro stessi.

Tra i tanti video arrivati, di gente che abita a pochi o moltissimi chilometri da qui, è venuto fuori  “Non fare l’indiano“, un piccolo capolavoro arrivato dritto dritto da Bombay – che ha anche una seconda puntata. Godetevi entrambi i video, che davvero meritano. Tant’è che ci ho scritto un chilometrico post sopra solo per farveli vedere.

Diaz

Come ha scritto più di qualcuno, sapevamo cos’era successo. Sicuramente ne abbiamo anche discusso, magari con qualcuno al bar, abbiamo letto i giornali. Ci eravamo fatti un’idea. Sapevamo che c’era un’ombra nera sui fatti di Genova del 2001, che c’era stato un morto, le violenze per strada, la tensione. Ricordavamo le immagini degli scontri, le edizioni dei telegiornali, la comparsa di quest’espressione, “black bloc”, un nome che fa paura ancora oggi e viene evocato praticamente ad ogni manifestazione. Forse abbiamo anche visto ricostruzioni in tv, o trasmissioni cosiddette “di approfondimento”, che è ben raro riescano ad approfondire qualcosa. Sono cose che, sempre come ha scritto qualcuno, offrono un’informazione “setacciata”, e spesso intenzionalmente falsificata. E le rare eccezioni finiscono per confermare la regola.

In realtà non sapevamo un bel niente. Sono le immagini, che rendono tutto più reale di qualsiasi frase scritta – o detta -, a farci scoprire che anche quello che sapevamo, beh, non lo sapevamo poi così bene.

Per cui un sabato sera vai al cinema, ti siedi in una sala piccola e praticamente vuota, e sei catapultata in interminabili minuti di pestaggi, violenze, umiliazioni, torture.

Lo sapevate che in Italia non è previsto il reato di tortura?

Sei lì e sobbalzi ad ogni colpo, e ti costringi a tenere gli occhi aperti anche se nella tua testa stai pensando quasi quasi adesso mi alzo e me ne vado, ma chi me lo ha fatto fare? E invece bisogna farlo. C’è chi crede che il film vada trasmesso nelle scuole. Non so, io non riesco a smettere di pensarci da tre giorni, se lo avessi visto a 16 anni forse non ci avrei neanche dormito. Probabilmente avrei tutta un’altra considerazione delle parole Forze dell’Ordine, della parola Stato.

Poi arrivi raggelata ai titoli di coda e scopri che la maggior parte dei reati di cui sono accusati i responsabili dei fatti della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto (non so quali delle due sequenze sia peggio) sono andati o andranno tra poco in prescrizione. Una rapida ricerca a casa (ma perché non me ne sono mai interessata prima? Perché ho l’impressione che non ne abbia mai parlato nessuno?) e vieni a sapere che tutti sono ancora al loro posto, alcuni addirittura sono stati promossi. Nessuno ha mai chiesto scusa, nessuno si è mai preso la responsabilità di quanto accaduto. Amnesty lo ha definito, come recita la locandina del film, “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Eppure la mia impressione era, ed è ancora, che sia tutto così sospeso, ovattato, sussurrato: me ne rendo conto solo ora. Me ne sono resa conto all’uscita dal cinema, guardandomi intorno e chiedendomi come fosse possibile che non urlassero anche i sassi, che la gente camminasse ignara, che anch’io abbia camminato ignara e che continuerò a farlo, perché comprendere fino in fondo quel che è stato non è possibile da parte di chi non lo ha vissuto.

Sono passati dieci anni: dieci anni ci sono voluti per parlarne, per mostrare qualcosa al di fuori dell’aula di un tribunale, per metterci sotto al naso la verità; per cominciare – cominciare soltanto – a fare i conti con quello che è successo. Ferite non ancora chiuse? Di queste ferite sapevamo a malapena l’esistenza, come potrebbero essere chiuse? In un’intervista il regista, Daniele Vicari, ha raccontato di alcuni ragazzi e ragazze tedeschi (inutile dire che le donne hanno un punto di vista particolarmente drammatico della vicenda, e chi ha visto il film lo sa) che dopo aver visto il film ci hanno tenuto a ringraziarlo “perché adesso la gente ci crede”. Non riuscivamo a crederci, è vero. Non ci rendevamo conto.

Sapevamo ma non abbastanza, e quel che sapevamo lo abbiamo dimenticato. Un’amnesia collettiva, un’incredibile ignoranza di massa. Mi chiedo dove sia lo scandalo di proporzioni epiche che sarebbe dovuto scoppiare, dove le proteste, le domande fatte ad alta voce e non soltanto al proprio riflesso o a facce familiari e altrettanto sconvolte. Ma poi penso che in Italia gli scandali lasciano – sempre, sempre – il tempo che trovano: basta dare alla gente il tempo di dimenticarsene.

Un film è sempre un film, ma a volte non è solo un film. A volte è una gran tranvata in piena faccia, è la consapevolezza agghiacciante dell’impunità della violenza e della sopraffazione anche in uno Stato che si definisce democratico. È la sensazione che fascismo sia una parola uscita dall’ambito politico per diventare la definizione di uno stato della mente, di una follia sia individuale che collettiva, forse la più adatta a definire la banalità del male.  È lacrime di rabbia e orrore quando le luci si accendono, è il senso di nausea quando sei a letto e pensi e cerchi di fare i conti con il tuo senso di colpa e con la tua vergogna, quella di essere non solo un cittadino italiano, ma un essere umano.

Ma è anche la voglia di sapere, di riflettere, di cambiare il proprio punto di vista, di parlarne. Di ascoltare, finalmente; per capire, almeno fin dove è possibile, e rendere almeno questa giustizia a chi cerca di dire la verità da dieci anni. Che poi sia vero che ricordare serve a non ripetere gli errori del passato, questo è tutto da vedere.


I fatti del G8 

I processi  

Quattro domande senza risposta

Quando la polizia fa da supplente alla politica


1994-2011: sic transit gloria mundi

Eh sì, bisogna proprio che ne parli. Due parole le devo dire, vincendo questo pigro silenzio.

Devo cerchiare sul calendario virtuale queste date, non posso proprio farle passare come se nulla fosse.

Lo scorso sabato sera non ero a casa mia, ma a casa di un’amica per una rimpatriata. Ho aperto il Novello e ho aspettato di veder scorrere la notizia “Berlusconi si è dimesso”, finalmente. Ho pensato che nel 1994 avevo cinque anni e che chiaramente all’epoca non avevo idea di che cosa avrebbe significato la famigerata discesa in campo, né me ne importava. Beata innocenza. Pare che in diversi punti il videomessaggio che l’ex premier ha voluto propinare per l’ennesima volta agli italiani richiamasse proprio quello del ’94. Non so se sia vero e non intendo appurarlo, ma se così fosse possiamo prenderlo come il segno della vera fine di un’epoca: un video ce l’ha portato, un altro se lo porta via. Puoi lasciare il campo e andartene a casa, Presidente. Scegli tu quale.

Quando è salito al Quirinale è stato accompagnato da una folla tale da sembrare un corteo non autorizzato – se fossi stata a Roma sarei stata lì anch’io, probabilmente. Emilio Fede ha cercato di far passare per applausi i fischi, patetico fino all’ultimo. Il lancio di monetine (presunto? accertato?) è probabilmente il minimo che ci si poteva aspettare da un Paese esasperato, e chi non vive nella vita reale può “condannare la violenza” quanto vuole. Ma di quale violenza stiamo parlando, poi? La politica di questi ultimi 17 anni è stata molto più violenta di quanto possa essere una folla di persone che cantano l’Alleluia.

Il 12 novembre 2011 in parecchi hanno festeggiato. Mi chiedo quelli che lo hanno votato che fine abbiano fatto. Anzi, me lo sono sempre chiesto: ad ogni governo Berlusconi chiedevi in giro e non trovavi un’anima che gli avesse dato il voto, nessuno, pareva di giocare allo schiaffo del soldato. Uno dei tanti misteri dell’era Berlusconi.

Che, già che ci siamo, non la vedrei poi tanto finita. Non so se il cialtrone spunterà su di nuovo come ha più volte fatto, nonostante ormai la sua veneranda età gli consigli di limitare gli sforzi; ma se anche Berlusconi fosse davvero finito, è il berlusconismo che mi dà da pensare. E non parlo solo dei politici che si riciclano e della politica divenuta sempre più sciatta e volgare, ma dei cittadini stessi che sembrano aver assorbito i peggiori difetti di chi li governa, che hanno imparato a considerare lo Stato come un nemico da cui difendersi, a vedere nella politica esclusivamente la disonestà e la violenza di linguaggio e di idee, a ritenere lecito e paurosamente normale, sull’esempio dei nostri governanti, quel che normale non è, né tantomeno lecito, a perseguire il successo tramite l’egoismo e la furberia mentre ci si riempe la bocca di meritocrazia sì, ma solo per gli altri, perché invece a noi tutto è dovuto, a rendere cronica la ricerca di scorciatoie dove le istituzioni mancano o remano contro, ad essere rassegnati, ad accontentarsi di svendere sé stessi e i propri diritti, a voler essere come loro. Sì, perché trovo triste e disgustoso che un ragazzo di vent’anni aspiri a diventare un settantenne che si circonda di ragazze troppo giovani per distrarsi dal pensiero dei processi e dei milioni da difendere, con uno stuolo di leccapiedi e faccendieri per famiglia, truccato come una ballerina in televisione a far finta che del popolo gli importi davvero qualcosa, perso in deliri di onnipotenza telefonici tra rivoluzioni e persecuzioni, solo per allontanare il pensiero del suo mausoleo già pronto.

Un aspetto esilarante di questa trasformazione delle nostre stesse teste sono i trending topics di twitter di oggi e le battute nate intorno al governo Monti. Non parlo tanto dei #montifacts (“La crisi del ’29 fu risolta annunciando che nel ’43 sarebbe nato Monti”, “Monti raccoglie le conchiglie nel Mar Rosso dividendo le acque”, “Ogni volta che Monti aggrotta le sopracciglia un Compro Oro chiude”, e soprattutto “Monti può sedersi sul posto di Sheldon Cooper”, ma anche “I Monti sono il nascondiglio preferito dei Draghi”) quanto dei giochi di parole intorno, sopra, sotto e ai lati del nome del neoministro allo Sviluppo economico Corrado Passera (e non solo: “tutti #Gnudi aspiriamo #Profumo di #Passera sui #Monti” rende bene l’idea), e fioccano battute sull’apparente continuità col governo appena caduto, come dire che sempre di quello si parla. Non siamo più abituati alla compostezza e alla sobrietà che vediamo invece nelle apparizioni televisive del nuovo Presidente, che avrà tutti i difetti di questo mondo, ma almeno non racconta barzellette. Twitter, lo sottolineo en passant, è formidabile nel seguire gli eventi di questi giorni (a questo proposito consiglio questo post che racconta in cinque punti come il social network abbia seguito la nascita del nuovo governo meglio di una testata giornalistica).

Mettendo da parte le battute, insomma sembra proprio che non ce ne liberiamo. Il berlusconismo è penetrato troppo profondamente in una società che deve reimparare a volere di più dai suoi rappresentanti, e anche da sé stessa. E spero che chi, come me, è cresciuto con il faccione di Berlusconi in televisione sappia sbarazzarsene.

Oggi, 16 novembre 2011, il nuovo governo ha giurato ed è ufficialmente alla guida del Paese. Non so se la situazione migliorerà o se andremo definitivamente a ramengo, non so come l’Italia in generale e la mia vita in particolare cambieranno nei prossimi e meno prossimi tempi, ma di certo qualcosa dovrà cambiare. Spero in meglio. Spero in una strada nuova. E spero soprattutto di non voltarmi indietro tra venti, trenta, quaranta anni e rendermi conto di aver agito esattamente come i finti cinici, menefreghisti, ignavi, ipocritamente disonesti, i perché così fan tutti che oggi tollero a mala pena e che non fanno altro che lasciare che le cose vadano come vanno continuando a considerarsi vittime innocenti.

Berlusconi, goditi gli anni che ti restano e lascia a noi raccogliere i cocci. Magari ha ragione Benigni e anche stavolta saremo il Paese della resurrezione.