In un anno

Non pubblico nulla dal settembre del duemilasedici.

In quasi un anno di assenza su questo canale è successo che:

  • ho vinto qualcosa, evento che non ha precedenti, e per la precisione un bando di concorso, il che è davvero roba da matti
  • ho vissuto sei mesi a Rimini
  • per un certo periodo della mia vita non sono stata nota come Susanna ma come LA Susanna
  • sono stata per la prima volta al Salone del Libro di Torino
  • ho assistito (e talvolta partecipato) a innumerevoli laboratori per bambini e ho imparato che le presentazioni di libri per l’infanzia non hanno niente a che vedere con quelle noiosissime cose degli adulti
  • ho avuto in regalo una reflex e ho avuto anche un paio di lezioni di fotografia, per la maggior parte purtroppo già dimenticate per assenza di pratica
  • a Bologna ho parlato in inglese (?) a gente venuta da tutto il mondo che pensava, a torto, che io conoscessi l’inglese
  • ho visitato praticamente tutti i borghi malatestiani dell’entroterra riminese e sono stata persino su una montagna che sembrava fatta di lava (ma era argilla) sulla cui cima, qualche secolo fa, avevano ben pensato di fondare la “Città del Sole”
  • ho mangiato quantità industriali di gelato e di piadina
  • ho camminato sulla sabbia con gli stivali, cosa decisamente inusitata
  • sono stata al mare in maggio, cosa ancor più inusitata
  • ho visto anche l’alba sul mare, dal treno
  • ho viaggiato parecchio in treno
  • ho conosciuto un sacco di gente
  • sono stata fiera di riuscire, alle volte, ad avere decisamente una faccia da culo (solo alle volte)
  • ho trascorso una quantità di tempo alle Poste superiore alla media di un cittadino normale, non contando gli impiegati delle Poste
  • ho accumulato una certa esperienza, ma soprattutto una gran quantità di ansia, riguardo la burocrazia dei centri per l’impiego italiani
  • sono caduta dalle scale esattamente il giorno del ritorno a casa
  • ho dormito in una scuola di Amatrice in pieno inverno
  • sono tornata a frequentare Roma in una stagione in cui dalla capitale si dovrebbe fuggire
  • ho presentato per la prima volta un libro
  • ho venduto libri (non so quanti, ma spero parecchi)
  • ho letto libri (non so quanti, ma spero parecchi)
  • ho contribuito anche a farli, i libri (non so quanti, non moltissimi, ma tutti ovviamente bellissimi)
  • ho passato una notte insonne dopo una telefonata terribile ricevuta appena rimesso piede in Romagna, in un giorno di marzo apparentemente come tutti gli altri, e sono ripartita con il primo treno l’indomani mattina, senza avere il coraggio di respirare profondamente, di pensare all’ipotesi che potessi non arrivare in tempo. E non sono arrivata in tempo. E la mia nonna non c’era già più. Ma il giorno prima ci eravamo abbracciate, ci eravamo salutate. E questo, volendo, può bastare.

 

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Lettera d’amore sul treno

Di Milano ho visto due cose: la stazione Centrale e quella di Porta Garibaldi. Una all’andata, una al ritorno. Milano Centrale è bellissima: quando il treno è scivolato sotto le volte di vetro ho pensato brevemente al Musée d’Orsay, col suo enorme orologio, e a fantasmi di nebbie e fumi che una notte d’inverno un viaggiatore di inizio secolo avrebbe potuto vedere. Ma quel giorno c’era il sole, e Milano Centrale era bianca e affollata, non solo dalle persone, ma dai negozi lampeggianti e incongrui, tristemente identici a quelli di Roma Termini, dai quali ho distolto lo sguardo per alzarlo sulle volte, sulle scalinate, sull’orologio di ferro battuto che mi ricordava di non fare tardi. Sono uscita qualche minuto e sono rimasta lì, in quella che ho poi scoperto essere Piazza Duca d’Aosta, appena il tempo di imprimere negli occhi l’immagine di palazzi alti e di sole abbagliante. Poi sono tornata dentro, ché dovevo prendere un altro treno.

Mi piace viaggiare in treno. Da bambina guardavo i treni passare nella stazione vicino a casa, una stazione piccola di paese, dove salivano massimo uno o due passeggeri, oppure nessuno. Il passaggio a livello rintoccava, il treno arrivava sferragliando e ululando, e io potevo sentirlo da lontano, e correre a vederlo. Una volta i miei genitori vollero far provare a me e mia sorella com’era. Mia madre comprò i biglietti e salimmo tutte e tre alla stazione della città, mentre papà ci salutava dalla banchina. Osservai con vago timore e una certa emozione il paesaggio che scorreva dal finestrino per un quarto d’ora che mi sembrò lunghissimo. Arrivati alla stazioncina vicino casa c’era lì papà a prenderci, sembrava avessimo fatto una gita.

A scuola prendevo il treno per arrivare alla sede centrale del liceo, e il suono del passaggio a livello era diventato il segnale che ero in ritardo e c’era da correre. Spesso viaggiavo però in orari inusuali, magari per essermi fermata in città con le amiche, più spesso per qualche corso pomeridiano. In quei quarti d’ora ho iniziato ad amare il dondolìo del treno, i suoi rumori, persino i suoi spazi stretti ma più vivibili di un autobus. La sensazione di lasciarsi condurre, di poter distogliere lo sguardo dal reale per entrare in uno stato di riflessiva fantasticheria.

Mi piace l’idea di viaggiare in treno. Mi piace avere un biglietto in tasca e un treno che mi aspetta al binario. Mi piace salire, cercare il posto, eleggerlo a mia poltrona personale ed esclusiva per qualche tempo. Mi piace osservare i tabelloni delle stazioni che periodicamente cambiano con quel loro meccanico sfogliettìo che promette mille destinazioni diverse. Mi piace trastullarmi con l’idea di stare lì davanti, scegliere una città, comprare il biglietto al volo e partire. Mi piace andare, mi piace anche tornare, mi piace rimanere sola nel mezzo, osservare chi mi sta vicino, parlarci se mi va, magari fare strani incontri. Come quando, sul regionale Milano-Verona, ho giocato a morra cinese con un bambino di sei anni – no, quasi sei anni, bambinesca precisione – che ho poi scoperto essere figlio di Leonardo Manera. Ma tu lo conosci mio papà?, lì per lì ho pensato ma figuriamoci, del resto due minuti prima aveva dato per scontato che conoscessi la via dove abita, io che di Milano avevo visto, appunto, solo la Stazione Centrale. E invece.

Il treno è il viaggio, è l’andare e poi il tornare, però un po’ diversa, un po’ più qualcosa, un po’ meno qualcos’altro. Un misto di gioia e aspettativa, o una stretta allo stomaco di nostalgia, di mancanza, un vago timore dell’indeterminato, del provvisorio, una voglia di incontrare e sperimentare, di lasciar andare le sicurezze, un’ansia di novità e una paura del nuovo, insomma proprio come la vita. Però è anche un passare attraverso, attraverso cose, luoghi e storie, che sfiori senza toccarli, forse non li conoscerai mai, ed è quasi una vertigine pensare a tutte le cose che non si vedono in questo andare e tornare, quante stazioni sconosciute guardi solo dal finestrino, quanti posti in cui trascorri qualche minuto appena per poi lasciarli di nuovo, forse per sempre. Ad esempio, io di Milano ho visto solo due cose: la stazione Centrale e quella di Porta Garibaldi.

Quattordici anni dopo

Segno la data quassù, perché, come sa chi mi legge da un po’, è un argomento che mi sta a cuore.

La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per i fatti avvenuti alla Diaz durante il G8 di Genova. L’Italia è stata riconosciuta colpevole di aver violato l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.

La Corte, nello specifico, ha condannato l’Italia per tortura, ha stabilito che ha una legislazione penale inadeguata perché non prevede tale reato e che non ha nemmeno delle norme in grado di prevenire in modo efficace il ripetersi di tali possibili violenze da parte della polizia. Il problema, si legge nel comunicato stampa della sentenza, è «strutturale». [IlPost]

Questo è avvenuto grazie ad Arnaldo Cestaro, un uomo di 76 anni che non ha mai ottenuto giustizia e probabilmente mai la otterrà. Spero almeno che potrà vedere con i suoi occhi il giorno in cui l’Italia approverà una legge che riconosca il reato di tortura e che impedisca allo Stato di legittimare la sua stessa violenza.

La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per il massacro alla scuola Diaz – Il Post

Accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro – Ansa

Cos’è successo nella scuola Diaz – Internazionale

Perché in Italia tutti hanno paura della polizia  – Internazionale

Salvare

«Anche tu vuoi sempre salvare gli altri?»

«Sì, ma senza riuscirci mai.»

«E meno male.»

«Perché?»

«Perché altrimenti ci convinciamo di essere noi quelli che li salvano.»

Avevo scritto un post abbastanza lungo, qualche giorno prima della fine di dicembre scorso. Un elenco di cose che penso di aver imparato nell’anno appena trascorso, appuntate sul momento, le prime che mi venivano in mente. Poi sono state giornate un po’ piene – quest’anno a Capodanno ho lavorato, e sono una delle poche persone che conosco ad essere contenta di lavorare il 31 dicembre -, non avevo tempo di pubblicarlo, poi è arrivato l’anno nuovo e così siamo a febbraio. Di già.

E fra tutto quello che ho pensato mi è tornato in mente questo dialogo, che avevo tenuto custodito tra le pieghe di queste pagine senza svelarlo mai, perché secondo me esprime una grande verità, e aspettavo il momento giusto per parlarne. Il giorno in cui questo dialogo è avvenuto risale ormai a due anni fa, come sono quasi due anni che ho tra le mani qualcosa di così prezioso che a volte mi spaventa persino.

Quel dialogo mi piace perché racconta una parte di me, quella che vuole salvare gli altri, che pensa di poter avere il controllo delle situazioni – pure quelle degli altri -, che vuole dare una mano pure quando nessuno gliel’ha chiesta, perché pensa di poter migliorare la situazione, sempre. E la risposta che ho avuto mi ha lasciata così, senza parole, perché è così disarmante e vera che può essere stata detta solo da qualcuno che mi è simile come non pensavo.

Ma ultimamente mi piace anche perché vuol dire che le uniche persone che possiamo salvare siamo noi stessi, e spesso non ci riesce nemmeno tanto bene. E mi sa che questa è una delle cose importanti che ho imparato durante l’anno che si è appena chiuso, e adesso sta a me capire cosa farmene di questa consapevolezza.

E, infine, mi piace perché è una delle cose che fa capire, ogni giorno di più, che persona meravigliosa ho incontrato su quell’autobus tanto tempo fa.