Cento di questi followers

Ohibò, ho pensato. Proprio questa parola, ohibò, che non si usa praticamente più, né  per iscritto né nelle conversazioni orali, figuriamoci nei soliloqui mentali. E invece io l’ho pensato,  ohibò, quando ho visto che questo blog ha 102 followers: è una parola troppo adeguata alla situazione.

Ehi, ho raggiunto (e superato! doppio ohibò!) quota cento; e chi lo avrebbe mai detto? Qua ci vuole un post autocelebrativo! Ben centodue persone (le ultime si sono iscritte proprio in questi giorni, confermando il mio sospetto secondo il quale quando taccio ricevo molti più consensi di quando parlo – a proposito di autocelebrazione) ricevono costantemente gli aggiornamenti di questo blog, presumibilmente chiedendosi  chi sia questo “losengriol” che spunta fuori una volta ogni tre mesi circa e chiedendosi come gli sia venuto in mente di iscriversi a un blog  chiamato castelliinaria, che sembra lo spazio di una casalinga esperta in cucito e bricolage.

Ebbene, non lo so neanche io, come vi sia venuto in mente. Però è bello. Ecco.

Quindi, alla prossima.

[Calo drastico di iscrizioni in seguito a questo post: previsto e calcolato.]

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Perdiamoci di vista

Non posso scriverlo su Facebook, come farei normalmente, proprio perché da quel social è nata la questione, quindi lo scrivo qui: cari amisci che conosco da quando avevo undici anni, se non prima; oh voi, cari. Vi si conta sulle dita di una mano, per quanto mi riguarda; siamo andati alle scuole medie insieme – con alcuni ci conosciamo fin dalle elementari – poi anche al liceo, sì, ma solo con voi; gli altri li ho persi tutti di vista, e non ne ho saputo più niente. E anche voi, con l’università, chi vi ha più visto? Alcuni (pochi) (anzi, una), invece, li ho ritrovati da poco, con un certo piacere, certo, ma è l’eccezione che conferma la regola. Per me è sufficiente, davvero. Può bastare. La vita va avanti, si vede altra gente, si fanno altre cose, insomma la solita, la sapete, no?
Quindi ve lo dico con grande serenità, o almeno lo farei, se potessi, oh amisci: no, non ho intenzione di venire alla cena di classe delle medie che Felicetta, poverina, cerca di organizzare da tempi immemori. No. Se Felicetta (che in questo caso è un nome di fantasia posto in rispetto di una presunta privacy, ma che da queste parti non è poi tanto difficile da trovare, soprattutto tra le signore da una certa età in su) – se Felicetta, quindi, non riesce neanche al quinto tentativo a convincere persone di 25 anni ad andare a cena fuori con altre persone di 25 anni, se non di più, che non si vedono da più di dieci, io oserei suggerei che dev’esserci un certo qual motivo.
E il motivo potrebbe essere, ad esempio, che nessuno lo vuole fare.  Non so se è chiaro: se non ci siamo visti né sentiti da tredici anni a questa parte, cosa vi fa pensare che vorremmo rivederci proprio ora? Se siamo riusciti nell’impresa di evitarci fino ad oggi, pur vivendo nello stesso sputazzo di paese di provincia e pur con tutta la tecnologia che ci circonda e che riesce a rintracciare persino il lontano parente sconosciuto che vive in Nuova Zelanda, perché volete rovinare tutto proprio ora? Dimmi, perché, oh Felicetta?

Rinunzia, cara, rinunzia. E anche tu, compagna da (relativamente) poco rincontrata, rinunzia. Se vi va di vedervi tra voi, perché vi conoscete e vi frequentate anche a distanza di anni, fate pure; non avete certo bisogno di coinvolgerci in una rimpatriata. Non che io abbia niente contro le rimpatriate; fino a qualche anno fa se ne facevano di regolari con le compagne di liceo, finché alla fine ci siamo accorte di essere sempre le solite quattro e a quel punto ci siamo organizzate tra noi senza aspirare a rintracciare ogni volta anche le altre. Ecco, fate anche voi così. Tanto più che ormai il tempo trascorso è quello che è; neanche me li ricordo più, io, i miei compagni delle medie – e quel poco che ricordo non è incoraggiante. E dato che, a quanto sembra, i miei sentimenti non differiscono da quelli della maggior parte dei vostri invitati, che oserei dire non vi si filano di striscio, fossi in voi desisterei. Stiamo bene così, quello che è stato è stato, e se ci fosse stato un motivo per non perderci di vista, lo ripeto, lo avremmo già trovato. A nessuno interessa sapere come o cosa siamo diventati; e poi, per quello c’è sempre Facebook.

L’ultimo degli esami

Emergo dai libri per dire solo una cosa: tornare a studiare latino a 25 anni, dopo dieci anni di oblio, è qualcosa di terrificante.

Terrificante.

Però è uno sforzo che sottolinea adeguatamente l’importanza dell’evento: questo è il mio ultimo esame, l’ultimo in assoluto della mia carriera universitaria. Dopo di questo, solo la tesi mi separerà dalla mia laurea magistrale. Dopo di questo, ci sarà finalmente la FINE: la mia vita universitaria sarà terminata.

Dopo di questo, potrò finalmente trascorrere in pace mesi e mesi a cercare lavoro e a godermi la dolce sensazione di non aver più lezioni a cui arrivare in ritardo (e per le quali farsi tenere il posto dalle amiche), esami che incombono sulla mia testa con date con cui si può giocare a tetris e pomeriggi passati a fotocopiare illegalmente libri della biblioteca, pranzi a base di pizza sull’erba della città universitaria e viaggi estenuanti fuori e dentro Roma, collezioni – e collazioni – di generosi appunti altrui e trepidanti attese fuori dagli studi dei professori (quando ci si sente davvero tutti sulla stessa barca), collassi dovuti alla kafkiana burocrazia delle segreterie e conversazioni che non sai bene se l’ansia te l’hanno fatta venire o te l’hanno fatta passare, entusiasmi da prime lezioni, soprattutto di quei corsi che sulla carta sembravano una schifezza, e invece! (quegli stessi entusiasmi che scompaiono magicamente quando si avvicinano la date dell’appello e si è convinti che si studierebbe volentieri qualsiasi cosa, ma non quella), serate accampati in casa d’altri senza sentirsi di troppo e uscite sempre con pochi soldi in tasca, alla ricerca della mostra gratuita o del biglietto scontato, incontri piacevolmente imprevisti e pianti cui solo un bacio può dare sollievo, nottate passate a decifrare la prosa dell’eminente studioso di turno e a cercare di arrivare, finalmente, alla fine del maledetto capitolo, soli, mentre fuori tutto tace, e l’unica domanda che emerge dal fondo della stanchezza, potentemente, è: ma a me, ma chi cazzo me l’ha fatto fare?

E da lì al chi sono, da dove vengo, dove vado ma soprattutto, io, cosa mai voglio fare della mia vita? il passo è breve, anzi, brevissimo.

Insomma, sarà la fine di tutto questo. Fantastico, no? 

…No?

 

Rido da sola se dico cacca

Leggo e ribloggo il post di theselbmann:

Rido da sola se dico cacca

«…Sto riflettendo che non è la sicurezza che ti rende davvero felice, ma il pensiero che le cose vanno bene oggi, adesso, subito. A questo pensiero ho rinunciato per anni. E MMO MME SO ROTTA LI COJONI, come si dice dalle mie parti. Quindi ho mollato, per il mio bene. (…) ho mollato quel senso di responsabilità e serietà per il quale pensavo OK, FACCIO QUESTO PERCHÉ UN GIORNO ANDRÀ TUTTO MEGLIO, E ADESSO VA COSÌ, MA È GIUSTO PERCHÉ UNO DEVE UN PO’ SOFFRIRE PER POI ESSERE FELICE.

E chissà come mai, io resistevo resistevo, e poi felice ero solo quando scappavo via e raggiungevo le cose e le persone che mi fanno stare bene davvero. Perciò…ho tagliato. Ho tenuto l’essenziale. E non ho alcuna idea di cosa succederà.»