Di Milano ho visto due cose: la stazione Centrale e quella di Porta Garibaldi. Una all’andata, una al ritorno. Milano Centrale è bellissima: quando il treno è scivolato sotto le volte di vetro ho pensato brevemente al Musée d’Orsay, col suo enorme orologio, e a fantasmi di nebbie e fumi che una notte d’inverno un viaggiatore di inizio secolo avrebbe potuto vedere. Ma quel giorno c’era il sole, e Milano Centrale era bianca e affollata, non solo dalle persone, ma dai negozi lampeggianti e incongrui, tristemente identici a quelli di Roma Termini, dai quali ho distolto lo sguardo per alzarlo sulle volte, sulle scalinate, sull’orologio di ferro battuto che mi ricordava di non fare tardi. Sono uscita qualche minuto e sono rimasta lì, in quella che ho poi scoperto essere Piazza Duca d’Aosta, appena il tempo di imprimere negli occhi l’immagine di palazzi alti e di sole abbagliante. Poi sono tornata dentro, ché dovevo prendere un altro treno.
Mi piace viaggiare in treno. Da bambina guardavo i treni passare nella stazione vicino a casa, una stazione piccola di paese, dove salivano massimo uno o due passeggeri, oppure nessuno. Il passaggio a livello rintoccava, il treno arrivava sferragliando e ululando, e io potevo sentirlo da lontano, e correre a vederlo. Una volta i miei genitori vollero far provare a me e mia sorella com’era. Mia madre comprò i biglietti e salimmo tutte e tre alla stazione della città, mentre papà ci salutava dalla banchina. Osservai con vago timore e una certa emozione il paesaggio che scorreva dal finestrino per un quarto d’ora che mi sembrò lunghissimo. Arrivati alla stazioncina vicino casa c’era lì papà a prenderci, sembrava avessimo fatto una gita.
A scuola prendevo il treno per arrivare alla sede centrale del liceo, e il suono del passaggio a livello era diventato il segnale che ero in ritardo e c’era da correre. Spesso viaggiavo però in orari inusuali, magari per essermi fermata in città con le amiche, più spesso per qualche corso pomeridiano. In quei quarti d’ora ho iniziato ad amare il dondolìo del treno, i suoi rumori, persino i suoi spazi stretti ma più vivibili di un autobus. La sensazione di lasciarsi condurre, di poter distogliere lo sguardo dal reale per entrare in uno stato di riflessiva fantasticheria.
Mi piace l’idea di viaggiare in treno. Mi piace avere un biglietto in tasca e un treno che mi aspetta al binario. Mi piace salire, cercare il posto, eleggerlo a mia poltrona personale ed esclusiva per qualche tempo. Mi piace osservare i tabelloni delle stazioni che periodicamente cambiano con quel loro meccanico sfogliettìo che promette mille destinazioni diverse. Mi piace trastullarmi con l’idea di stare lì davanti, scegliere una città, comprare il biglietto al volo e partire. Mi piace andare, mi piace anche tornare, mi piace rimanere sola nel mezzo, osservare chi mi sta vicino, parlarci se mi va, magari fare strani incontri. Come quando, sul regionale Milano-Verona, ho giocato a morra cinese con un bambino di sei anni – no, quasi sei anni, bambinesca precisione – che ho poi scoperto essere figlio di Leonardo Manera. Ma tu lo conosci mio papà?, lì per lì ho pensato ma figuriamoci, del resto due minuti prima aveva dato per scontato che conoscessi la via dove abita, io che di Milano avevo visto, appunto, solo la Stazione Centrale. E invece.
Il treno è il viaggio, è l’andare e poi il tornare, però un po’ diversa, un po’ più qualcosa, un po’ meno qualcos’altro. Un misto di gioia e aspettativa, o una stretta allo stomaco di nostalgia, di mancanza, un vago timore dell’indeterminato, del provvisorio, una voglia di incontrare e sperimentare, di lasciar andare le sicurezze, un’ansia di novità e una paura del nuovo, insomma proprio come la vita. Però è anche un passare attraverso, attraverso cose, luoghi e storie, che sfiori senza toccarli, forse non li conoscerai mai, ed è quasi una vertigine pensare a tutte le cose che non si vedono in questo andare e tornare, quante stazioni sconosciute guardi solo dal finestrino, quanti posti in cui trascorri qualche minuto appena per poi lasciarli di nuovo, forse per sempre. Ad esempio, io di Milano ho visto solo due cose: la stazione Centrale e quella di Porta Garibaldi.