Il sollievo dei vinti

Il 31 dicembre 2013 è stato l’ultimo giorno di apertura del ristorante dei miei. Da quest’anno  il luogo in cui sono cresciuta non esiste più.

I miei lo hanno aperto nel 1986, un anno dopo essersi sposati e un anno prima che nascesse mia sorella. Era un posto abbandonato prima che mio nonno, che aveva una trattoria sulla strada, lo comprasse per permettere ai miei di aprire una pizzeria e anche di avere una casa. La mia famiglia, infatti, abita ancora qui. Siamo in un querceto vicino al fiume, a pochi metri da una strada trafficata dalla quale, però, siamo quasi invisibili grazie agli alberi secolari che ci fanno ombra. Viviamo in una valle stretta dominata dalle montagne dell’Appennino, che d’estate riflettono lo sferragliare del treno che passa sulla strada ferrata. Il paese più vicino è un borgo medievale appoggiato su una collina. D’inverno a volte nevica, d’estate sentiamo gli scoiattoli saltare da un ramo all’altro di quegli alberi che rendono la nostra casa la più fresca della zona.

Quando mio nonno comprò il terreno, oltre alle querce e ad alcune costruzioni abbandonate non c’era granché. Un tempo questo era un villaggio di lavoratori impiegati nella centrale idroelettrica vicina, la prima costruita in Italia, durante il fascismo. Qui vivevano intere famiglie, con tutto quello che serviva, dalla chiesetta alla mensa, fino alla sala ricreativa. Tutte cose che esistono ancora, ma in forme diverse: la mensa, ad esempio, è diventata la sala più piccola del ristorante. Sotto l’intonaco ci sono ancora i motti fascisti sul pane e sul lavoro dipinti con quei caratteri neri e spigolosi che sulla facciata di una casa del paese di mio padre ricordano ancora agli automobilisti di “Tenere la destra”.

In una delle case degli operai che vivevano qui un secolo fa oggi viviamo noi. È una casa solida, con i muri spessi, il soggiorno dal soffitto mansardato e un bel camino. Si trova sopra alla cucina del ristorante, con il quale comunica tramite una semplice porta. Casa mia è il ristorante, e il ristorante è casa mia. I miei l’hanno ristrutturata, come hanno ristrutturato tutto il resto. Con il tempo hanno ampliato le sale, hanno trasformato la terra battuta in giardini circondati da basse siepi, vialetti e panchine. Li hanno aiutati genitori, fratelli, cugini e zii. Durante il giorno lavoravano nella trattoria dei miei nonni, la sera nella pizzeria, che poi è diventata anche ristorante. Quando ero bambina mi ricordo che tra quelli che lavoravano qui da noi, e non erano pochi, la maggior parte erano parenti: era una specie di grande impresa familiare.

Noi bambine siamo cresciute con la pizza il sabato sera, le zie che ci facevano assaggiare il sugo, la nonna che ci preparava per merenda il panino con il prosciutto tagliato lì per lì. La domenica saliva dalla cucina l’odore dell’arrosto, e giù per le scale si sentiva anche quello dell’alcool per lucidare i piatti. Lucidare i piatti con l’alcool rosa, a ben pensarci, è probabilmente la prima cosa che ho imparato a fare in questo mestiere. E mi ricordo anche, nitidamente, la frescura e il silenzio dell’ingresso di casa quando rientravamo il pomeriggio tardi con i miei genitori, che avevano lavorato fino a quel momento dai miei nonni; noi piccole scendevamo dal pulmino della scuola direttamente lì, dato che a casa non ci sarebbe stato nessuno. Ho trascorso metà della mia infanzia nella trattoria di mio nonno, l’altra metà nel ristorante dei miei.

Mia madre parla di chiusura da circa tre anni. Le cose non vanno benissimo da molto più tempo, ma gli anni veramente difficili sono stati gli ultimi tre o quattro e lei è sempre stata la voce più negativa, ma pragmatica, della famiglia. Mio padre no, è sempre stato più ottimista e l’ha sempre convinta a cercare di tirare avanti. Fino a qualche mese fa, quando hanno detto basta, non ce la facciamo più.

Non mi metterò a discutere di crisi, di marketing, di imprese e di costo del lavoro, né cercherò di attribuire responsabilità e colpe. So soltanto, questo lasciatemelo dire, che i miei lottano contro gli studi di settore da quando sono stati istituiti, e contro la famigerata crisi da quando si è manifestata, ma nonostante tutto non sono mai venuti meno ai loro principi, per quanto possano sembrare scontati (e per noi lo sono, infatti): la materia prima deve essere di qualità, il servizio professionale, i dipendenti si pagano, i fornitori anche, le tasse, pur se alte, pure. Punto.

Quando ci si arrende davanti all’inevitabile, quando si decide di non combattere più, perché si pensa che non ne valga la pena, o perché semplicemente non se ne hanno le forze, la reazione non è necessariamente di rabbia o disperazione o angoscia. C’è anche quello, ma viene prima. Come le fasi del lutto: c’è il rifiuto, la rabbia, il tentativo di salvare la situazione, di contrattare con le circostanze, la paura, ma alla fine c’è l’accettazione. È così e basta. E incredibilmente a quel punto si sente un respiro diverso, sempre amaro, ma liberatorio, quasi un sospiro di sollievo: il sollievo dei vinti. Quando non si hanno più le forze, quando si combatte una guerra lunga e logorante, fatta di speranze puntualmente deluse e di vittorie così piccole da non essere mai sufficienti, arrendersi fa sentire meglio. Fa guardare le cose in un altro modo.

È così che in questi giorni ci siamo divertiti a progettare tutto quello che possiamo fare ora che non abbiamo più un’attività da mandare avanti. Tutto il tempo libero di chi non ha un lavoro, ve lo immaginate? Niente più sabati sera a lavorare, ma anzi ad uscire, andare al cinema, in teatro, oppure rimanere semplicemente a casa, tra di noi: per mia madre, che è cresciuta nella trattoria di mio nonno, sono stati i primi sabati sera in famiglia della sua vita. Niente più tour de force per preparare pranzi da cerimonia, niente più sorrisi ai clienti rompiscatole, niente più domeniche al chiodo mentre amici e parenti fanno le gite fuori porta o i pranzi di famiglia a cui noi non possiamo partecipare, niente più lavoro nei giorni in cui gli altri si divertono, niente più declinare gli inviti alle cerimonie e alle feste “perché siamo aperti”, niente più rinunciare ad allontanarsi di casa per due o tre giorni perché “al ristorante chi ci pensa?”. La prima cosa che hanno fatto i miei è stata andare a passeggio per il centro di Roma, il primo sabato dell’anno, loro due da soli. Non so da quanto tempo non lo facevano.

Poi verrà tutto il resto. Verrà la piena consapevolezza di aver perso il lavoro di una vita, di aver messo la parola fine a quasi trent’anni di qualcosa di proprio, che si è costruito partendo da poco più di zero, ma costruito davvero, con i muri reali, non solo metaforici. Qualcosa che è stato opera delle proprie mani, che è stato opera della propria vita.

Verrà, e speriamo non faccia più male di quanto non abbia già fatto. Intanto però c’è una vita da vivere.

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Giornate buttate a Roma / II

So che questo non è da me e mai mi sarei sognata di andare contro la categoria, ma sappiate che a volte se trattate male i baristi quando se lo meritano sempre, davvero, non vi biasimerò.

Soprattutto se sono maschi, sui venticinque e stanno dalle parti di Piazza di Spagna. E si rifiutano di tenere la bocca chiusa e farti un misero frappè ai frutti di bosco.

Agosto

In questi giorni io leggo -a ondate successive, diciamo-, lavoro senza troppa convinzione ma con lena, mi sveglio con il mal di gola, rimprovero il cane perché abbaia ai gatti, mangio quantità spropositate di yogurt magro e non so perché, cammino a piedi nudi per casa, parlo incessantemente ma solo nella mia testa, navigo un po’ su internet poi mi stufo e il portatile mi fa caldo, sfoglio i libri incerta su come quando dove perché studiare, scatto qualche foto, accarezzo il gatto, sbircio il tramonto per vedere com’è questa volta, sudo e sono contenta di sudare, alimento il mio odio per il digitale terrestre che sgrana quando c’è il film che voglio vedere, e scado comunque frequentemente nel turpiloquio ogni qualvolta la tv è accesa, ho un rapporto conflittuale con il telefono sia quando squilla che quando è muto, mi ostino a fare un po’ d’ordine, continuo a mettere crema sulle mani desiderando una pelle meno sensibile ai saponi, però poi me le lavo, poi ce la rimetto, poi me le rilavo…

Ecco.

Lo zoo del Villaggio

Questa casa a volte somiglia più a un ricovero per animali o a uno zoo che a un ristorante. O a una casa, perché no.

L’ultimo avvistamento è giusto di ieri, quando un bel ricciotto determinato è stato interrotto nel suo vagare da Sock, un cane che non si fa mai gli affari suoi.

La presenza di ricci da queste parti non è nuova. Un paio di anni fa ne abbiamo persino adottato uno, che poi si è ripresentato un anno dopo, abitante indisturbato della legnaia.

La voce deve essersi sparsa, perché adesso piombano da noi ghiri dagli alberi, gatti mezzi ciechi e cani zoppi. Il cane zoppo in questione è Pippo, che fino a qualche mese fa stava così:


Mio padre l’ha caricato in macchina al distributore di benzina dove qualche animale lo aveva abbandonato, con una zampa malata. Sarà che in quel periodo mio padre si era fatto male a un piede, ma la sintonia è stata immediata. Peccato che poi la zampa Pippo (così battezzato da mia madre) se l’è proprio rotta, meritandosi un mese di gesso. E quindi da un po’ abbiamo due cani, una bella coppia di matti. Del resto, anche Sockie non si fa mancare niente: lui ha la strana abitudine di farsi spuntare tagli e ferite dalla provenienza ignota. Fortunatamente ha una ripresa rapida, altrimenti potevamo aprire una succursale del veterinario direttamente qua da noi. Si fa male esattamente come fanno i bambini – è ancora un cucciolone, nonostante le apparenze. Sì, perché se un anno fa era così:

Ora è così: