Zero

Primo febbraio duemiladodici, ore nove: mi sveglio e fuori è tutto coperto di bianco.

Guardo fuori, poi mi rinfilo a letto per altre tre-quattro ore.
Ieri ho consegnato in segreteria l’ultimo verbalino dell’ultimo esame del mio corso di laurea triennale, sostenuto il giorno prima. Otto ore di attesa, più o meno come il mio primissimo esame del mio corso di laurea triennale. Quella volta l’ho passata seduta sul pavimento freddo, mangiata dall’ansia, a rileggere febbrilmente pagine su pagine, a ripetere insieme ai compagni di corso conosciuti appena poche settimane prima. Indossavo una curiosa maglietta decorata con motivi orientali, appartenuta a mia madre, made in Pakistan o giù di lì. Bellissima, ci sono tutt’ora affezionata da morire. Era la mia maglietta porta fortuna. E tu vai a fare l’esame conciata così? mi ha detto uno dei compagni di cui sopra, fissando le stampe colorate e le maniche a pipistrello. Io almeno ogni tanto mi cambio, ho detto io fissando i suoi jeans, sempre gli stessi.
Belle, le prime conoscenze all’università.

Stavolta però niente maglietta, in compenso avevo una sedia e un bagaglio di altre quaranta esperienze simili già affrontate – quaranta esami in poco più di tre anni, a pensarci adesso è quasi da folle.

Poi uscire nel freddo inaspettato di Roma con un ultimo pezzo di carta in mano e l’immancabile mal di testa in testa, incontrare la sorella, telefonare a casa       sì è andato tutto bene, però sono qui dalle nove di stamattina, non ne potevo più        no, non ho fame sorella, ho pranzato con un kitkat e neanche l’ho finito        non mi capacito del perché io debba sempre essere la discarica delle ansie altrui, l’hai sentito che non stava zitto un attimo?       non lo so come ci si sente a dir la verità, probabilmente devo ancora rendermene conto        e comunque l’assistente teneva davvero troppo, è stata una storia infinita, ma adesso vado a casa, sì ok mangerò.

Dopo due birre da otto gradi a stomaco vuoto ho capito che era il caso. Le orecchiette cucinate alle undici di sera  dall’amica M. che mi ha ospitato hanno fatto il loro mestiere. Il gatto che quella mattina mi aveva dato l’in bocca al lupo mi guardava attento. Io pensavo alla mia amica MF. a cui devo parecchio di tutto questo, e che non era con me – ma lo sarà presto, oh se lo sarà.

Forse è stato il mio ultimo esame alla Sapienza. Forse. Chissà. Tutto è così imprevedibile.

Segno, come è doveroso, la data sul calendario. Non è una gran data, non è niente di epico, niente di poetico, niente di profondo. È una piccola cosa di cui vado tranquillamente e intimamente fiera, che mi proietta un po’ più avanti, che mette un punto fermo a impegni, fatiche, paure, passioni, fibrillazioni e a parecchie altre cose che sono state e sono ancora parte di me.

E auguri alla mia mamma che oggi compie cinquant’anni, lei che mi tiene sospesa sui baratri senza mai farmi cadere.

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Email

‎Io: Professore destinatario di questa mail, io ho questo problema all’università, come lo posso risolvere? Guardi glielo descrivo benissimo così lo capisce, mi ci metto proprio di impegno, così mi può dare una risposta certa. Poi, insomma, la domanda non è neanche complicata: volendo basterebbe un sì o un no.
Ah, ovviamente il sottotesto di questa mia è che vorrei risparmiarmi di venire a parlarle di persona – il fatto stesso che le stia mandando una email lo rende non dico evidente ma almeno supponibile. E vorrei risparmiarmelo per una serie di motivi che non sto a dirle, tipo il fatto che abito a 100 kilometri di distanza. Tipo.
La ringrazio anticipatamente, so che mi posso fidare di lei che ha buonsenso. Cordiali saluti eccetera.

Risposta del prof: Venga al ricevimento.

Posso farcela, davvero. Ce la posso fare. Respiri profondi…

Intanto riempio il vuoto di questo blog con qualche idiozia di questo genere, ma è solo perché non ho tempo di produrre cose più articolate che però sono qui in giro da qualche parte. O almeno credo. Spero che non scappino via prima che riesca a fermarle.

Le voci mentali e altre idiozie: un post di cui si poteva fare a meno

Sento un allegrotto e inaspettato bisogno di comunicare qualcosa e di scrivere qualcosa, preferibilmente che sia allegrotto. Voglio proprio che le facezie vengano a me. Passare al lato cretino della Forza. Non che sia difficile.

Ho passato tutto il pomeriggio a elencare, fotocopiare, stampare, fare controlli incrociati, compilare robaccia cartacea e telematica per la laurea. Ho affrontato, cioè, una delle mie più grandi paure: la burocrazia. Quando pensavo a questi mesi (cioè prima che fosse questo periodo io pensavo a questo periodo, intendo che mi immaginavo a qualche mese dalla laurea, voglio dire immaginavo me stessa, sapendo quel che dovevo fare, ipotizzando come sarei stata messa in quanto a studio e tutto il resto, al lavoro da organizzare, insomma, chiaro no?) avevo paura. Non della tesi, non degli esami che mi mancavano (beh sì, anche quelli, ma meno, meno) ma della burocrazia. Di tutti i documenti da raccogliere, compilare, controllare, fare duplice e triplice copia, consegnare entro date stabilite. Io queste cose le odio. Però oggi pomeriggio sono stata lì e le ho organizzate. Pensavo di metterci un paio d’ore e invece c’ho messo la mia bella mezza giornata, ovviamente.

Ora ho la faccia di un’invasata e la cosa non mi sorprende. Però per la verità dovrei stare peggio, mi meraviglio e mi congratulo, non ho neanche il mal di testa. Ohibò.

Poi stavo pensando che dopodomani vado a Roma, di bel nuovo nuovamente (non so perché parlo sempre di quel che devo fare e di dove devo andare, sarà la mia tendenza a progettare per non dimenticarmi le cose e dato che progetto poi penso a quello che ho progettato e allora me lo ripeto e finisce pure che lo scrivo, soprattutto quando non so che cosa dire ma ho un’irresistibile voglia di dirla). A Roma devo (appunto): andare in bilioteca 1, andare in biblioteca 2, parlare con la tutor, parlare con il relatore, prendere dei libri in prestito, restituirne altri, comprare delle dispense, portare il regalo di Natale a M.F. (sarà ora?), lamentarmi, studiare, alternare attimi di panico a momenti di superomismo, affacciarmi alle porte dei negozi di abbigliamento e fuggire quando ci vedo dentro più di tre persone inclusa la commessa. Lamentarmi, anche. Il tutto in due giorni e mezzo.

Ultimamente ho deciso che la mia ricerca bibliografica per la tesi è pressoché finita. Probabilmente non è vero, ma il punto è che mi sono ampiamente rotta le palle un po’ stufata e quindi smetto. Dite che è sufficiente come motivazione? M.F. pensa che sia abbastanza valida, se non altro perché sullo Zibaldone del caro Giacomo si può andare avanti per anni, e io invece mi vorrei laureare prima di raggiungere l’età del mio relatore. Le amiche che mi assecondano io le amo, ma sono pericolose. Anche perché c’è una vocina nella mia testa che ha qualcosa da ridire riguardo a questa argomentazione, qualcosa del tipo “sì vabbè, ma tu hai un argomento circoscritto da trattare, non è una tesi su tutto quel che c’è da dire sullo zibaldone, sarebbe da pazzi, tu parli di poche precise cose, ma su quelle devi essere preparatissima, devi sapere tutto, e avere tutto il materiale reperibile o quasi, e soprattutto che cazzo significa che ti sei stufata? sii seria, non hai quattro anni, e poi voglio vedere la figura di merda che fai col relatore” (mi scuso per il turpiloquio ma le voci mentali, oltre ad essere sboccate, non hanno l’autocensura).

L’altra sera avevo una voglia di gelato così intensa che quando non ho trovato la gelateria aperta, vi dirò, ci sono rimasta malissimo. Adesso m’è rimasta sta voglia di gelato a metà, cioè non mi va come l’altra sera però un po’ mi va ancora, quindi se per esempio domani mi capita davanti una gelateria sicuro me lo prenderei però non sarei soddisfatta come lo sarei stata l’altra sera e quindi ci rimarrei male. Sono dei tristi dilemmi, a ben pensarci.

Sarete orgogliosi del manifesto spessore culturale e del profondo e complesso significato di questo post.