Sono
emotivamente
esausta.
Spero solo che tutto questo serva, domani, a qualcosa.
Spero solo che tutto questo serva, domani, a qualcosa.
Oggi è il 25 febbraio e io compio 25 anni. Mi dà da pensare.
I capelli bianchi che ho contato oggi sulla mia testa. Sicuramente sono di più, ma quattordici sono quelli che ho visto.
Mia madre dice che è normale, che anche lei alla mia età eccetera. Io ancora mi chiedo perché i suoi geni si siano tradotti in me in cose come questa, e non abbiano avuto invece il buon gusto di dotarmi, che so, del suo fondoschiena o delle sue gambe, ché mia madre c’avrà cinquant’anni ma con una minigonna fa ancora la sua porca figura, una di quelle che io non farò mai.
Comunque, era per ritornare a quella faccenda del crescere e dell’invecchiare e tutto il resto. Perché mi ha lasciata un po’ interdetta vedere questi fili bianchi tra i miei ricci proprio in questi giorni, pare quasi si siano messi d’accordo. Anzi, ne sono convinta: lo hanno fatto apposta.
Chissà che origini ha l’usanza di festeggiare il compleanno. Immagino risalga all’epoca in cui superare un altro anno per approdare, ancora vivi e sani, a quel particolare giorno non era faccenda poi così scontata, quindi c’era un certo motivo di rallegrarsene.
Oggi gli unici che si rallegrano di aver superato un altro anno sono i bambini. No, forse possiamo allargare il cerchio fino ai minori di 18 anni. Perché finché si tratta di raggiungere i 18 anni siamo tutti smaniosi di mangiare, bere, scartare i regali, divertirsi e aspettare di avere finalmente ‘sta benedetta patente e la possibilità di firmarsi da soli le giustificazioni per le assenze. Dopo i 18 invece gli anni volano, che è una frase che dicono tutti, senza eccezione alcuna. E tutti iniziano, chi più chi meno, a manifestare sempre meno entusiasmo, a lamentarsi sempre più insistentemente di star invecchiando, a nascondere l’età, a non volere nemmeno gli auguri, a volte.
Ma che sarà, ‘sta malattia? Sarà paura, sarà. La solita, banalissima paura del tempo che passa, di invecchiare, di salutare senza appello i bei tempi in cui si era giovani e splendenti. Ma i miei coetanei avranno veramente questo tipo di paura? Paura di invecchiare, di imbruttire, di non essere più così agili, sia di testa che di gambe? Un ventenne non può aver paura delle rughe, suvvia.
Forse allora è paura di dover diventare veramente grandi – perché essere e sentirsi, per diritto d’età e per definizione, degli irresponsabili, è quasi inebriante. E l’idea di avere diciassette anni è così romantica e sconfinata che è bello anche solo a dirsi.
Oppure è la paura di non fare in tempo a fare tutto quello che si vuole, di perdersi in cose che non ci piacciono e che però dobbiamo fare (ma le dobbiamo fare davvero?) e che ci costringono a rimandare quelle a cui davvero teniamo a qualche tempo più avanti, quando avremo tempo, quando avremo la possibilità, quando avremo dato l’esame, quando avremo finalmente quei soldi in più da spendere (e quando mai?), quando avremo sistemato questo e quello, quando avremo un lavoro ... oppure quando non avremo: non avremo questa cosa da finire, quell’obiettivo da raggiungere, questo problema da risolvere, questa persona che – ne siamo convinti – non può fare a meno di noi, qui e adesso.
Io non sono da meno, eh. Ma nel mio caso la situazione è peggiorata dal fatto che già mi danno dai 27 anni in su, per cui anche se tentassi di togliermi gli anni (cosa che non mi è ancora mai passata per la testa, per fortuna) sembrerei poco credibile.
A pensarci bene, però, per me gli anni non sono cominciati a volare a 18, ma a 19, quando ho finito la scuola e ho iniziato l’università. Mi accorgo che ci sono pezzi di me che sono ancora come allora, e chissà se cambieranno mai. La settimana scorsa ho incrociato nel corridoio un ragazzo che non vedevo da quel periodo lì. Sono sicurissima che fosse lui, perché all’epoca gli ho venduto dei libri per un esame e lui mi aveva invitato ad andarlo a vedere mentre provava in teatro, perché faceva l’attore. Non ci sono mai andata, chissà perché. Fatto sta che lo ricordavo benissimo, ricordo persino il nome, cioè il tratto delle persone che tendo a dimenticare in maniera quasi patologica. Mi sono anche gingillata per qualche secondo con l’idea di andare lì e salutarlo, ma era in attesa di sostenere un esame, si vedeva da come (non) stava seduto.
Un’altra consistente parte di me, però, lo sa che sono passati cinque anni. E se li sente tutti. Anzi, vi dirò, non pensa neanche che siano poi così volati. E se ormai l’idea di superare un altro inverno è anacronistica, almeno quella di aver affrontato e superato ostacoli di ordine diverso da quello della pura sopravvivenza fisica (ma poi, sempre di sopravvivere si tratta), e di aver fatto un altro passo avanti verso un futuro che, nonostante tutto, ci piacerebbe poter continuare a pensare bello, e anche verso una, chiamiamola, amicizia più profonda con sé stessi, per non tirare sempre in ballo l’amore, ecco, io quest’idea me la vorrei tenere. E se tra crescere e invecchiare il limite è labile, beh, dicono che vecchiaia sia sinonimo di saggezza, dicono.
In definitiva, quest’anno avevo voglia di festeggiare. Il primo anno in cui non sarebbero capitati esami nei dintorni, in cui non c’erano impegni improrogabili, scadenze da rispettare o che, semplicemente, non si prospettava come un periodo del cappero. Non avevo voglia solo di riposarmi, se non altro, ma di sorridere e stare con le persone con cui sto bene. Di godermi il periodo di cose inaspettate che mi stanno capitando. Di segnarmi la data.
Ecco, proprio quest’anno, il 25 febbraio, ovvero lunedì scorso, giorno in cui ho compiuto 24 anni, ho avuto la febbre.
C’erano una volta cinque scemi, di cui una con la febbre (e un’altra di cinquant’anni, va detto), che seduti attorno a un tavolo hanno impedito a un onesto padre di famiglia di ascoltare la tv perché impegnati a giocare rumorosamente a Taboo, quando ci riuscivano, dato che ridevano così tanto da non riuscire a vedere il cartoncino per le lacrime. La cosa è andata avanti fino a mezzanotte, ora in cui quella che aveva la febbre ha mandato tutti a casa. Del resto, le vecchiette sono bisbetiche.
Fuori piove.
Nostalgia non so bene di che.
Sorrisi strani, un po’ malinconici, un po’ misteriosi.
Leggerezza ubriaca, che danzando sulle punte mi attira verso solitudini interiori.
Ho freddo sulla fronte. Me ne accorgo solo quando ci appoggio la tazza ancora calda del tè che ho appena bevuto. Che strano sabato, così sospeso.
Credo di essermi innamorata – platonicamente, però.
Di chi (o di cosa) dovrei saperlo, ma non è poi così scontato.
E così c’è questa gioia triste che non so bene come interpretare – all’ossimoro non si sfugge e me lo tengo.
Il mio agosto è finito e inizia settembre, il mese delle decisioni, dei propositi, delle partenze. Degli inizi, appunto.
Ma fuori non piove, a ben vedere, non ancora: c’è solo un cielo grigio e un vento fresco.
Nota a margine: il 16 agosto di quest’anno Castelli in Aria ha compiuto 5 anni. Anche se quando è nato aveva un altro nome. (Non importa, sono sempre io). Quando me ne sono accorta sono stata molto sorpresa. Cinque anni non sono mica pochi, anche se sono passati sparando scemenze. Per festeggiare, auguro a tutti quelli che transitano da queste parti di non dimenticare mai di costruire i propri castelli in aria, che non sono utopie irrealizzabili bensì i nostri desideri, le nostre aspirazioni, i nostri Sogni con la S maiuscola. Sono gli atti d’amore che compiamo verso noi stessi e verso la vita. Senza, appunto, non si è vivi.