Che si vada a incominciare.

È la prima volta, da che ho memoria, che l’appressarsi della fine dell’anno porta con sé l’incalzante sensazione che qualcosa, davvero, stia finendo. E che qualcos’altro, dunque, inizierà.

Forse perché è la prima volta, da che ho memoria, che non si tratta di una parentesi tra impegni rimasti in sospeso, che si chiamano da un lato all’altro dello spartiacque. Ché il capodanno, piazzato lì tra una presunta festività religiosa e l’altra, nel mezzo di qualche giorno di vacanza strappata a occupazioni e scadenze, a ben pensarci, perde un po’ di senso. Buona fine, buon inizio!, ma di cosa, che domani devo studiare per l’esame di gennaio, esattamente come ho fatto ieri? Per dire. Non si fa in tempo a chiudere un capitolo che si sta già pensando a quello successivo, che poi è esattamente identico al precedente, c’è solo un numero diverso nella data del calendario.

Quest’anno non ho esami. E non ho neanche un lavoro, le mie sono ferie perenni. Non ho strascichi, non ho ponti mentali da un lato all’altro di una data che dovrebbe essere fatidica.

Però no, non è solo questo. È che sta finendo il 2015, che è stato un anno lunghissimo e difficile, e con lui ho la sensazione che finiscano molte altre cose. Non è stato un anno da dimenticare, anzi va ricordato per bene, perché ho imparato tanto di me, tanto da me. Tanta intensità, tanta scoperta, tanta fine; ma la fine non è sempre qualcosa di negativo, e non parlo solo della laurea. Potrei dire che è stato un anno vissuto intensamente. Tanta vita, insomma.

E l’impellente sensazione, ora, che sia tempo di chiudere capitoli ed iniziarne altri. E la forza di credere che, qualunque cosa succederà, saprò affrontarla come ne ho affrontate altre, che sarò all’altezza di me stessa. Perché la vita, a me, piace. O almeno questo è quel che mi sento di aver imparato da quest’anno. No, c’è anche un’altra cosa: l’amore non si dice, si fa.

Sono solo all’inizio, ma ora che sono partita non ho intenzione di fermarmi. Finisce questo anno, ma ne inizia un altro. E allora, che si vada a incominciare.

 

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Cose che (non) sto facendo – quarta ed ultima puntata

Nella scorsa puntata vi ho raccontato del mese di latitanza dal blog passato a tentare di animare un centinaio di bimbi e ragazzi – e di rianimare me stessa, c’è da dirlo, dopo essere tornata a casa, la sera. Un mese, dicevo, senza contare le settimane di preparazione e organizzazione durante e dopo le quali, tra le altre cose, ho avuto anche il compito di ordinare le magliette a tema per animatori e bambini e farmele arrivare da Bergamo (so’ efficienti, i bergamaschi, vi elargisco questa perla di originalità. La ragazza del magazzino con cui parlavo al telefono era così contenta che fosse l’ultimo di tre  – o quattro? –  ordini che nel pacco ha allegato un segnalibro in regalo, per non parlare del tizio del corriere che ormai poteva trovarci ad occhi chiusi).

Ebbene, penserete che dopo un mese di balli scemi e giochi sotto il sole costatimi un’abbronzatura a forma di occhiali sul viso io mi sia riposata.

Sbagliato.

Ho pensato bene di partire per la montagna per quattro giorni come animatrice di un ristretto gruppo di tredicenni di belle speranze, armati di valigie più grandi delle mie e di scorte di Nutella e patatine in quantità che non vedevo dai tempi delle gite a scuola. Lo scopo era di sperimentare un campo estivo al di fuori delle famiglie e del paesello rivolto a ragazzi e ragazze di quell’età strana a metà tra l’infanzia e l’adolescenza, per vedere l’effetto che fa.

E vi dirò, l’effetto pare averlo fatto. Sono creature strane, i tredicenni; capaci di passare dalle sigle dei cartoni animati a Belen nel giro di pochi secondi, di ridurre la camera da letto in un luogo dove sembra siano esplose tre valigie, di litigare ferocemente per un pacchetto di cipster, di tornare a casa con i vestiti buttati in un sacco di plastica, di continuare ostinatamente a giocare nonostante la stanchezza per poi crollare nel sonno abbandonando ogni proposito di scherzo notturno – al quale, peraltro, non avevamo mai creduto -, di mettersi in gioco, di abbandonarsi, di nascondere sogni smisurati, e problemi altrettanto smisurati, di odiarsi e amarsi, canzonarsi e aiutarsi allo stesso tempo, di dire parole inaspettate, di dimostrare attenzione e gentilezza sincere, così insolite negli adulti.

In tutto questo relazionarmi con persone così diverse da me, insomma, mi sono allenata ad andare oltre i miei limiti, mentali e fisici. Cercando di insegnare, ho imparato. E per farlo ho dovuto dormire cinque ore a notte, sorbirmi La sveglia birichina al mattino – e per fortuna che io ero già sveglia quando era il momento di farla partire, non mi sorprende che la odiassero -, spalmare creme solari e doposole a destra e a manca, e, soprattutto, scalare una montagna.

Ebbene sì, la sottoscritta è arrivata ai duemiladuecentoefischia metri della vetta del Terminillo, la “Montagna di Roma” che in realtà, invece, è di Rieti – e becca. Un’esperienza, come dire… che riempie. Sei lassù, ti fanno male le gambe, il sole è accecante se appena alzi lo sguardo, sei circondata solo di rocce e vento e allora respiri e guardi, guardi, giri lentamente sul posto e puoi vedere tutto, puoi vedere quasi il mare e intorno a te niente, solo rocce e vento e silenzio. Per arrivare a questa meraviglia non c’è un sentiero semplice: l’ultimo tratto, quello tra il rifugio più vicino e la vetta vera e propria, è un continuo saliscendi di spuntoni di roccia quasi a precipizio sulla parete della montagna. È lì che nasce buona parte del dolore alle gambe che si farà sentire in discesa: l’attenzione nel mettere il piede nel posto giusto, nel tentare di non scivolare, di non sbilanciarsi – e lo sbalordimento nel vedere quelli che volteggiano disinvolti sul precipizio, quasi senza guardare, o almeno così sembra, dove stanno camminando. Chiaramente parlo della guida alpina e del Don bergamasco, per la cronaca.

Ma poi arrivi, e questa è la vista da lassù.

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E poi sono tornata a casa, con un po’ d’abbronzatura e una bella tosse secca dovuta presumibilmente al fatto che avevo calcolato male lo sbalzo termico notturno e la felpa pesante è rimasta a casa. Il bello è che da quando sono tornata la tosse non accenna a sparire, anzi pare autoalimentarsi. Insomma sono arrivata al punto di tirare fuori l’aerosol dai meandri della mia infanzia e di assumere antibiotici, antistaminici e cortisoni vari come se piovesse. Ad agosto. Se dovessi partire in questo momento per un’ipotetica vacanza – che comunque non ci sarà – dovrei portarmi dietro sette e dico sette scatole di medicinali, oltre alla macchinetta per l’aerosol, si capisce. Neanche la mia ottantenne nonnina prende tutta ‘sta roba. Dovrò munirmi anch’io di un portapillole? Fra l’altro sto prendendo un farmaco che tra i possibili effetti collaterali elenca tosse. Ottimo, direi.

Ma a parte questo. Sono tornata, dicevo, dopodiché sono ripartita, questa volta alla volta (passatemela, è l’una e mezza) di Assisi: ritiro per gli animatori, finalmente. Tre giorni di caldo afoso e opprimente e di mangiate luculliane, di stradine medievali e torri umane (la nostra, sbilenca e a rischio slogamento caviglia per il povero pinnacolo), di “ecco la fontanella!” e, incredibilmente, di “ma voi avete l’autorizzazione per spiegare? Se non siete una guida autorizzata non potete parlare”  – frase rivolta da un non meglio precisato custode di una chiesa al Don che ci stava mostrando degli affreschi del Duecento, che a quanto ne so dovrebbero essere ancora patrimonio della collettività e non delle guide turistiche.

E poi sono tornata anche da lì. Sempre con la tosse.

E poi basta, eh, ho finito di andare in giro.

E la finisco così, brusca, perché l’antistaminico sta facendo effetto e ho sonno.

Ma attenzione, la fiction estiva di Castelli in Aria potrebbe riservarvi nuove, incredibili sorprese. Stay tuned – o anche: a recchie ritte!

Sull’amore


«Noi pensiamo che la cosa più difficile sia amare, ma non è così: la cosa più difficile è lasciarsi amare


E con questo vi faccio i miei ritardatari auguri di Buona Pasqua. Li faccio anche se ormai è passata perché credo fortemente che questa festa sia uno stato mentale e spirituale duraturo, se si riesce a farlo durare. Se si riesce ad imparare.
E il concetto espresso da quella frase, che mi è stata detta la notte tra sabato e domenica, io spero proprio di impararlo davvero.