Risvegli

La luce del sole che penetra nella stanza, morbida, attraversando foglie, vetri e tende. Apro gli occhi e potrebbe essere l’alba, invece è quasi il tramonto. Muovo i piedi nudi contro le lenzuola fresche, muovo la testa verso voci ovattate e lontane. Sul cuscino tracce di lacrime che non ricordavo di aver versato. Nella testa tracce di un sogno che si riverberano prima di svanire. Respiro.

La limpida serenità che si prova dopo aver concesso riposo a corpo e spirito, quando si è agito assecondando una richiesta interiore, aspettandosi di ottenere solo un po’ di tregua e invece si riceve quasi una rinascita, una guarigione.

Vorrei riuscire più spesso a guardare il mondo così, come fossi nel mio letto, circondata di bianco e di profumo di bucato, con la leggera sensazione e la segreta speranza che le lacrime vomitate prima di addormentarsi siano ormai andate, espulse, lontane, superate. Qualcosa del passato, rispetto al quale si può andare avanti, senz’ombra di fardelli nello stomaco.

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Non sono pronta per la primavera

È marzo, ma io non me ne sono accorta. Si fa un gran parlare di primavera, di giornate che si allungano, di aria più tiepida e della bella stagione che si avvicina. Ed io mi guardo intorno e in effetti sì, le giornate sono più calde, ci sono le pratoline che fioriscono e la primavera che arriva, è così. Ora me ne accorgo.

Ma il punto è che non voglio. Non sono pronta per la primavera. Non sono pronta per le foglioline verdi, per le gonne leggere e le scarpe aperte, per l’aria tiepida anche la sera, quando il tramonto colora tutto. Non sono pronta per le uscite in compagnia,  i profumi improvvisi di fiori per la strada, la spensieratezza, le risate.

Mi guardo intorno e penso no, aspetta, ma che fine ha fatto l’inverno? Non è possibile che sia già finito, che sia già finito il tempo. Io voglio il freddo, il vento che si insinua nelle fessure delle case e dei corpi, il piumone che fa da barriera fra me e il mondo, la cioccolata nera come la notte fuori, il fuoco come unica luce della stanza, la neve che ferma voci, vite e tempo.

Come si ferma tutto? Non sono pronta per le rinascite, per le ripartenze, per la leggerezza, non adesso, non posso. Sto lottando con me stessa e non ho energia per niente altro.

Qualcuno fermi il tempo, non sono pronta.

Le giornate coperta

Le giornate coperta sono quelle giornate in cui, a un certo punto, vorresti che tutto venisse seppellito non dico sotto un velo pietoso, no, proprio sotto una bella coperta di quelle pesanti, che tengono caldo e danno sicurezza: stendi la coperta, tutto va a posto e grazie tante. Le giornate coperta non sono quelle in cui va tutto storto fin da quando si posa a terra il piede dal letto; no, quelle sono altre, si possono chiamare in vario modo, anche semplicemente giornate-ma-perché-non-mi-sono-girata-dall’altra-parte, dato che la cosa migliore da fare sarebbe, appunto, spegnere la sveglia, voltarsi dall’altra parte e continuare a dormire fino al giorno dopo – e tu lo sai, ma ti ostini ad alzarti e ad affrontarle lo stesso, ché ti tocca.

No, le giornate coperta sono più infide: iniziano bene, magari nel migliore dei modi, oppure iniziano normalmente, e poi piano piano, ora dopo ora, ti rendi conto che stanno andando sempre più… male. Male, e basta. Hai un appuntamento che sembra essere risolutivo ma invece non concludi niente, hai bisogno di una cosa che al negozio non trovi, la macchina ti lascia quasi a piedi, passi due ore al computer a informarti per un corso che si rivela più complicato del previsto e non sai nemmeno se ti servirà mai, lo strumento infernale con il quale si fa salire la legna per il camino quasi si rompe e devi fare due volte sue e giù per riempirlo, accendi il pc per scrivere la tesi e ti accorgi che il documento con l’ultimo salvataggio è rimasto su quello del tuo ragazzo a chilometri di distanza, e WordPress neanche funziona a dovere. E così arrivi alle sei di sera che vorresti solo una bella coperta, calda e consolante, sotto la quale ficcare tutto e riposare finalmente la testa e il corpo, senza pensare più a nulla. Chiusa in casa, tu e la coperta, e tutto il mondo fuori.

Ma il punto è che, in realtà, tutto questo non ti toccherebbe più di tanto in una giornata di ordinaria follia, in una giornata media in cui te ne capitano poi poche meno, ma insomma siamo lì. Le giornate coperta richiedono la coperta perché in realtà quello che si vorrebbe è accoccolarsi e lasciare che scivolino via i fantasmi che popolano il pensiero, quelli nascosti, che anche se stai pensando ad altro o stai facendo altro sono lì che passeggiano, dietro le quinte di ogni azione o parola, e non ti lasciano.

Sono lì che aspettano che tu ti decida a farci i conti, a elaborarli, a digerirli. Ti stanca molto, questa lotta per tenerli lontani, per permetterti di fare quel che devi, per trovare le motivazioni. Ma non è colpa tua; ci sono e basta. E quando tu non ci pensi, sono loro a pensare a te.

Le giornate coperta sono così: va tutto male, ma quel che davvero sta male è quel punto imprecisato all’altezza dello stomaco, che a volte scende verso la pancia, a volte risale fino al cuore, alla gola, agli occhi, e che vorresti poter curare con una semplice coperta – e un buon libro, già che ci siamo; e una confezione di gelato, per buona misura.

Ma siccome lo so, io, che le giornate coperta non si risolvono mai con una semplice coperta, sono qui che mi intestardisco a tenere fede almeno ai miei impegni, a non lasciarmi stressare troppo da cose irrilevanti, ad ascoltare musica allegra che, ho scoperto, è molto più utile di quella malinconica nelle giornate coperta.

E mi scopro a pensare con più leggerezza, a sorridere di me stessa, di quanto posso essere ridicola nel mio riflettere su cose tremendamente serie, e non so perché questo mi ricorda, al rovescio, di quanto sarò parsa ridicola quando ho passato quasi mezz’ora a decidere attentissimamente e serissimamente quale maschera di carnevale comprare e poi ho preso un paio di occhiali rossi giganti che mi hanno invidiato tutti i bambini di Piazza del Popolo il giorno di martedì grasso.

L’insostenibile leggerezza degli undicenni

«…Io non ci credo che l’inferno esiste, e neanche il purgatorio.»

«E il paradiso?»

«Sì, il paradiso sì. Andiamo tutti in paradiso.»

«E quelli che sono stati cattivi?»

«Anche loro.»

«E perché?»

«Boh perché… li perdona. Gesù quando l’hanno ucciso ha detto perdonali… e se ha perdonato loro, come fa a non perdonare noi?»

Do ripetizioni a un teologo e non lo sapevo.

[Poi su come si faccia a passare dai compiti di italiano ai misteri della fede e alle filosofie di vita ci sarebbe da dire.]

Vado. [Di parole, partenze e amore]

«Non sono gli occhi o le parole che amano, ma è il cuore che aderisce a un altro cuore.»  (M.)

Sono le tre di notte e io sono seduta su un letto a guardare una valigia aperta e piena fin sull’orlo, o di più. Chissà se domani riuscirò a chiuderla – ma sì, ci riuscirò, ce l’ho sempre fatta. Poi la caricherò sull’autobus, metterò le cuffiette nelle orecchie e dopo quasi sette ore di viaggio sarò arrivata.

Sto partendo. Vado verso una terra che mi chiama, verso una voce che finalmente non sentirò più solo al telefono, verso un paio di occhi verdi che quando mi guardano è come se qualcuno mi vedesse davvero per la prima volta.

Sono in viaggio, e la verità è che ho paura, ho scritto giorni fa, che tutti i giorni è una guerra con me stessa, ma anche credo sia il periodo più bello della mia vita, perché non è perfetto, non devo essere il giudice di me stessa (questo scriviamolo bello grosso, sottolineato e in grassetto, e con un paio di luci intermittenti già che ci siamo), perché, come mi disse qualcuno, «non ne hai il diritto».

E c’è che vorrei dire tante cose, che in questi mesi non ho scritto perché onestamente non avrei saputo come fare, come dar loro un nome, infilarle una dietro l’altra come perle sotto forma di parole, il che di solito è la mia arma prediletta contro il caos che mi sale dentro e che cerco di ordinare così, appunto, con le parole, con le storie, raccontandomi me stessa, mettendo in fila le parti di me come le perle di una collana, del resto si sa che la coscienza nasce con la parola, ho letto da qualche parte, e che l’uomo una volta creato per prima cosa diede i nomi alle cose, ho letto da qualche altra.

Per cui non scrivo, o meglio qualcosa scrivo anche, su quella carta che rimane chiusa nel cassetto e che a volte pesco chissà dove, presa al volo nell’urgenza del momento, e che si unisce ad altra carta che avevo dimenticato di avere   [tra le mani mi cade una lettera lunga pagine che non ho mai spedito, e non è neanche l’unica, ma questa per qualche tempo avevo seriamente pensato di inviarla, chissà se avrei mai ricevuto risposta]   e a quella virtuale di post iniziati e mai conclusi, o mai pubblicati, perché ci vuole del pudore con le nudità dell’anima – in ogni caso quel che ho scritto non è neanche una piccola percentuale di quel che mi scorre dentro.

E probabilmente è giusto così, va bene così, è questo quel che devo fare ora. Lasciare che scorra, immergermici dentro senza analizzarlo troppo, anche se un po’ mi dispiace, perché scrivere mi aiuta a ricordare, è come scattarsi una foto, e io amo ricordare, e amo anche scattare foto ora che ci penso.  E vorrei ricordarmi di tutto, anche dei più brevi attimi, di quelli belli e bellissimi e di quelli brutti e bruttissimi, di quando ho pensato che non sono abituata a pensare la giornata in due anziché da sola, e non ho capito ancora se è una cosa bella o brutta, ma credo tenda verso il brutto, o di quando ho sorriso guardando nella mia mano la chiave di una casa non mia, dove ho lasciato il mio spazzolino («questa è casa tua»), e questo credo tenda verso il bello, o di quando mi sono stupita di fare cose normali come andare a guardare una partita di calcetto, o del suo sguardo un po’ perplesso quando gli ho messo in mano un soffione – e insegnargli che i soffioni sono fatti per essere soffiati via, come fosse un bambino – , o di quella corsa prima che prendesse l’autobus per dimostrare a me stessa che potevo farcela, dopo i cinque minuti più lunghi di sempre, sola con tutte quelle lacrime che sembravano inesauribili, che potevo provare a combattere per essere felice, provare a resistere alla tentazione di lasciarmi schiacciare dalla paura (lo vedi che ti faccio soffrire?), o ancora dell’alba vista da una cucina vuota dopo una notte troppo lunga, o del tramonto sul mare, meravigliandosi ancora un volta di come scompaia in fretta il sole quando arriva all’orizzonte («non me ne ero mai accorto»), o del profumo dei tigli in fiore che ormai mi ricorda la sua città, o delle parole che salgono alle labbra ma si fermano un attimo prima, o degli occhi che si alzano al cielo ogni volta che dico no, non sono così bella come dici tu, o della rosa lasciata ad aspettarmi, come lui, che mi aspetta sempre («tu sei libera»)                  [o della domanda terribile, terribile, che cova sempre giù in fondo, in fondo a quel pozzo                 (…e se non sapessi amare?)         …e che va decantata, va lasciata riposare lì, in attesa che passi la sensazione di congelamento che prende il cuore, in attesa che il battito torni regolare – del resto, cercavo qualcuno o qualcosa che mi rianimasse tempo fa, o sbaglio?]

                                …e così vorrei continuare, fissare ogni attimo e scrivere la mia storia, scriverla mentre ci sono dentro, e raccontarmela, essere e dire allo stesso tempo, essere e raccontarmi. Ma forse, ripeto, è giusto così, va bene così. Lasciar tacere la voce narrante, lasciar perdere motivazioni e cambi di scena, finali provvisori e revisioni della trama, lasciare da parte il dire e far rimanere l’essere. Smettere di essere storia e iniziare ad essere vita.

Per cui, spengo tutto e parto. Vado in Puglia, vado da lui, dove il cuore riesce ad essere leggero e libero.

«L’amore è libero, non c’è costrizione.» (M.)

«…Tu sei libera

Vado.