Sapete cosa succede se versate un po’ d’acqua calda in un barattolo pieno di orzo solubile? Non lo sapete? Ah, che vi siete persi. Allora, vi dico io che succede. Ma mica perché è capitato a me, eh. No no. A un’amica di una mia amica, è capitato. Sì sì. Era molto stanca, con addosso una stanchezza che la addormentava, eppure aveva dormito parecchio. Troppo, probabilmente. E aveva mal di testa dalla mattina, e neanche una bustina intera di Oki era riuscita a farglielo passare, segno che era uno di quei mal di testa accaniti, indifferenti a qualunque soluzione tu tenti, di quelli insomma che facciamo passare ‘sta giornata e andiamocene a letto, e la mattina dopo sarà scomparso così come è venuto. E insomma, quest’amica di una mia amica decide di farsi qualcosa di caldo ché, tra le altre cose, sente anche freddo – le viene anche il dubbio fugace di avere la febbre, ma non ci si sofferma troppo perché sa di non averla – perché in effetti fa un freddo becco da un po’ di giorni a questa parte, persino a Roma fa freddo mentre di solito a Roma si suda anche a dicembre, soprattutto se corri per non perdere l’autobus, e a lei però questo freddo piace, stranamente. Di solito lo odia, il freddo, non le piace sentire freddo, l’inverno è bello solo perché c’è il caminetto e il Natale e basta, se non nevica poi neanche vale la pena, di avere l’inverno, perché la neve è bellissima e giocarci le dà una profonda gioia infantile, ma solo una mezz’oretta e poi di nuovo dentro a sorseggiare cioccolata davanti al fuoco, l’ha sempre pensato, lei, che a quelli a cui piace l’inverno in realtà piace stare dentro casa al caldo mentre fuori infuria la bufera o la pioggia o il gelo che blocca tutto, e allora non è vero che a loro piace l’inverno, piuttosto piace essere al riparo dall’inverno, al sicuro, a cullarsi guardando fuori dai vetri doppi. Però quest’anno è un po’ diverso. Non è che le piaccia sentire freddo, quello mai, però uscire di casa e inspirare quell’aria ghiacciata, piena di un odore inconfondibile che non può essere definito se non odore di inverno, che porta ricordi confusi e confortanti, che sa di pulito e puro, e il silenzio, almeno a casa sua, che scende dalle montagne e si posa ovunque, il colore grigio del cielo che sembra abbassarsi sulla terra – ma no, sono le nuvole cariche di neve, che poi magari si aprono e mostrano un azzurro così pulito e intenso da non credere che esista in natura una cosa così, e il vento che si infila tra il collo e la sciarpa, a tradimento, e rimanere per un attimo di più a vibrare dello scuotimento che provoca su per la schiena, prima di alzarsi il bavero e rituffare la faccia nella lana, chiudere tutti gli spifferi, incassarsi meglio il cappello sulla fronte, per assaporare la sensazione di vita che quello spiffero ti ha mandato dritto nel cervello insieme allo shock termico, come se vivere fosse resistere al vento, camminare incontro al gelo che entra nelle ossa raddrizzando la schiena, e rabbrividire magari, ma solo per scuotersi e ripartire, come se si fosse un po’ più forti. Ecco, è strano, ma quest’inverno un po’ il freddo le piace. Solo che non le piace infreddolirsi, no, e quindi dopo essere uscita pensa di farsi qualcosa di caldo, anzi di bollente, e allora sceglie l’unica cosa priva di teina della dispensa, vale a dire l’orzo solubile, che fra l’altro le ricorda ancora l’inverno, perché spesso ci faceva colazione la mattina quando andava a scuola e doveva prendere il treno alle 7 e un quarto e uscire a quell’ora con il ghiaccio sulla macchina che quasi non si riusciva ad aprirne le portiere non le piaceva per niente, figuriamoci gli spifferi sul collo, però doveva. E allora fa bollire l’acqua nel suo bravo pentolino, apre il barattolo dell’orzo dei bimbi, prende una tazza e ce la appoggia vicino, prende la presina, solleva il pentolino, e versa l’acqua nel barattolo dell’orzo. Non tutta. Ma quella poca sta facendo una sorta di laghetto nel bel mezzo dell’orzo. Lei la osserva, tranquilla, tanto ormai. E insomma, sapete che succede? L’acqua a poco a poco cade, assorbita dal fondo, e crea un grumo morbido di orzo sciolto compattato da orzo non sciolto tutt’intorno, una specie di mega caramella gommosa impanata di orzo. Le parti che si sono staccate si possono prendere anche in mano, vi dirò. E se riuscite a togliere tutto l’orzo ancora salvabile trasferendolo in un altro contenitore, noterete che questa caramellona è anche abbastanza grande, nonostante la poca quantità d’acqua che l’ha formata, e che a poco a poco prende il colore e la consistenza della pece. Non si stacca dal maledetto cucchiaino neanche a colpi di getti d’acqua del rubinetto e si incolla alle dita. E dato che tutto questo è accaduto ieri, e nel frattempo nessuno si è preso la briga di intervenire in alcun modo, se oggi poteste vedere il barattolo vedreste tutto un fondo nero e appiccicoso e semisolido che immagino sarà parecchio difficile tirare via da lì. Però chissà, magari l’amica della mia amica ha condotto, senza saperlo, un esperimento scientifico. Chi può sapere quali reazioni chimiche può provocare il contatto di un po’ d’acqua bollente ricca di calcio con dell’orzo solubile e dell’alluminio (cioè il rivestimento interno del barattolo)? Magari succede come con Fleming, che ha scoperto la penicillina scordandosi in giro un contenitore pieno di muffa, e va a finire che l’amica della mia amica ha scoperto, chessò, la cura per la calvizie. Lei. Perché io no, io non sono così rimbambita da versare dell’acqua in un barattolo pieno d’orzo. Ora però scusatemi che devo andare a decidere se lavare o buttare direttamente nella spazzatura un barattolo che ho di là in cucina. Ieri non avevo tempo, ero parecchio stanca perché domenica sono andata a Più libri più liberi e ho fatto e visto un sacco di cose, poi vi racconto.
Tag neve
Neve
C’è il vento fuori che ulula e non sembra aver intenzione di tacere. La neve si ammucchia sui gradini, sui davanzali, sui rami degli alberi, dopodiché viene spazzata via da una nuova raffica, vortica per un momento in aria in onde bianche, scivola via.
I passeri e i merli non avevano pace, oggi, e si chiamavano da ramo a ramo, arrivavano fino alle finestre per le briciole di pane ghiacciate che avevamo lasciato.
Non è silenziosa, questa neve. Non scende lenta in grandi fiocchi, non riposa sulle foglie. Non ci lascia uscire a guardarla, anzi ci chiude in casa. A un certo cane nero di mia conoscenza non importa un granché: corre e saltella, sembra non conoscere il freddo. Infila il naso nei cumuli, poi lo tira fuori completamente imbiancato, annusa l’aria, si rotola. Il suo degno compare non sembra altrettanto contento di questo clima, e dopo una corsetta torna al coperto, la zampa davanti sollevata – è quella che gli fa ancora male quando è umido, quella che una volta si è rotta.
Le finestre di casa sembrano quelle delle cartoline natalizie: quadratini bordati di legno scuro dagli angoli ricoperti di neve, come fosse glassa di zucchero. Persino il grosso portone d’ingresso è glassato da un bianco perenne.
Non sembra un giorno per agire, ma un giorno pensare. L’immobilità del corpo però intorpidisce anche la mente. Forse pensare non è una buona idea. Forse cercare non è una buona idea. Del resto, non sono neanche brava a farlo, anzi, direi proprio che faccio schifo, a cercare.
L’immobilità, ti dirò francamente, caro amico, non credo mi faccia molto bene. Non permette al sangue di circolare a dovere. Non che non mi piaccia, sia chiaro: la mia pigrizia non è un mistero, e avere una scusa per esercitarla… Però mi rallenta la vita nei polsi. Al che mi incastro in cumuli – di neve? essì, pare proprio un che di ghiacciato – che non riesco a superare, nei quali mi incastro docilmente, dolcemente.
Ebbene, cosa faremo di questa consapevolezza? Fermarsi a pensare è indispensabile, non si pensa un granché bene se il cuore pompa alla velocità del vento (o forse sì?). Ma se l’immobilità rallenta la vita, in realtà non fa che farla scivolare più velocemente, e in men che non si dica un nuovo giorno è passato e tu sei la stessa del giorno prima, solo un po’ più vecchia.
Quindi, che fare? Alternare attimi di ipervelocità a momenti di iperstasi? Potrei. Anzi, ti dirò, lo faccio già. Ci sono vortici che mi prendono e mi portano altrove, che mangiano ore e giorni, che mi sollevano su scorci di paesaggi intravisti e attraversati – per poi, però, riadagiarmi su lidi ben conosciuti, che rivedo ogni volta con sempre minore, malato affetto e maggiore, impotente fastidio. Allora, ti chiedo ancora, che fare? Assestarsi finalmente su un equilibrio tra movimento e non movimento che sia regolare abbastanza da vivere e pensare allo stesso tempo? Un passo tranquillo ma determinato che mi porti finalmente a voltare le spalle a orizzonti fin troppo familiari, per sostituirli gradualmente con nuovi panorami? Ma questo non è possibile, caro amico. Non siamo noi, fin troppo spesso, a decidere cosa fare del nostro sangue in circolo. A volte, come oggi, c’è questa neve che ti blocca e non ti lascia andare…
Zero
Primo febbraio duemiladodici, ore nove: mi sveglio e fuori è tutto coperto di bianco.
Guardo fuori, poi mi rinfilo a letto per altre tre-quattro ore.
Ieri ho consegnato in segreteria l’ultimo verbalino dell’ultimo esame del mio corso di laurea triennale, sostenuto il giorno prima. Otto ore di attesa, più o meno come il mio primissimo esame del mio corso di laurea triennale. Quella volta l’ho passata seduta sul pavimento freddo, mangiata dall’ansia, a rileggere febbrilmente pagine su pagine, a ripetere insieme ai compagni di corso conosciuti appena poche settimane prima. Indossavo una curiosa maglietta decorata con motivi orientali, appartenuta a mia madre, made in Pakistan o giù di lì. Bellissima, ci sono tutt’ora affezionata da morire. Era la mia maglietta porta fortuna. E tu vai a fare l’esame conciata così? mi ha detto uno dei compagni di cui sopra, fissando le stampe colorate e le maniche a pipistrello. Io almeno ogni tanto mi cambio, ho detto io fissando i suoi jeans, sempre gli stessi.
Belle, le prime conoscenze all’università.
Stavolta però niente maglietta, in compenso avevo una sedia e un bagaglio di altre quaranta esperienze simili già affrontate – quaranta esami in poco più di tre anni, a pensarci adesso è quasi da folle.
Poi uscire nel freddo inaspettato di Roma con un ultimo pezzo di carta in mano e l’immancabile mal di testa in testa, incontrare la sorella, telefonare a casa sì è andato tutto bene, però sono qui dalle nove di stamattina, non ne potevo più no, non ho fame sorella, ho pranzato con un kitkat e neanche l’ho finito non mi capacito del perché io debba sempre essere la discarica delle ansie altrui, l’hai sentito che non stava zitto un attimo? non lo so come ci si sente a dir la verità, probabilmente devo ancora rendermene conto e comunque l’assistente teneva davvero troppo, è stata una storia infinita, ma adesso vado a casa, sì ok mangerò.
Dopo due birre da otto gradi a stomaco vuoto ho capito che era il caso. Le orecchiette cucinate alle undici di sera dall’amica M. che mi ha ospitato hanno fatto il loro mestiere. Il gatto che quella mattina mi aveva dato l’in bocca al lupo mi guardava attento. Io pensavo alla mia amica MF. a cui devo parecchio di tutto questo, e che non era con me – ma lo sarà presto, oh se lo sarà.
Forse è stato il mio ultimo esame alla Sapienza. Forse. Chissà. Tutto è così imprevedibile.
Segno, come è doveroso, la data sul calendario. Non è una gran data, non è niente di epico, niente di poetico, niente di profondo. È una piccola cosa di cui vado tranquillamente e intimamente fiera, che mi proietta un po’ più avanti, che mette un punto fermo a impegni, fatiche, paure, passioni, fibrillazioni e a parecchie altre cose che sono state e sono ancora parte di me.
E auguri alla mia mamma che oggi compie cinquant’anni, lei che mi tiene sospesa sui baratri senza mai farmi cadere.