L’acchiappatore nella segale

– Sai quella canzone che fa «Se scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo qualcuno»? Io vorrei…

– Dice «Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno», – disse la vecchia Phoebe. – È una poesia. Di Robert Burns.

Lo so che è una poesia di Robert Burns.

Però aveva ragione lei. Dice proprio «Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno». Ma allora non lo sapevo.

– Credevo che dicesse «E ti prende al volo qualcuno», – dissi. – Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia.

J. D. Salinger, Il giovane Holden (The Catcher in the Rye)


Se una persona incontra una persona

che viene attraverso la segale

se una persona bacia una persona

deve una persona piangere? 

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Dicembre, 22

Non lo so se questo è amore, davvero non lo so, ma se proprio dovessi dare un nome a quello che sento, mi viene in mente solo questa parola, solo amore.

E non lo so se sarò capace, non so se basterà essere quello che sono, non so se riuscirò a ri-uscire, ogni volta, dalla paura di far del male, o di essere troppo felice – ché così sembra, a volte.

Però so che sono una persona diversa da un anno fa, e se c’è una cosa che dicono tutti è che l’amore cambia le persone. Se è vero, allora mi sa che sono innamorata.

(E sono amata, questo sì, di sicuro.)

E poi si addormentavano

Se non ti spaventerai con le mie paure

un giorno che mi dirai le tue troveremo il modo di rimuoverle.

In due si può lottare come dei giganti contro ogni dolore

e su di me puoi contare per una rivoluzione.

Tu hai l’anima che io vorrei avere.

 

 

«Non lo merito.»

«Io a questa cosa del merito non ci credo.»

Vado. [Di parole, partenze e amore]

«Non sono gli occhi o le parole che amano, ma è il cuore che aderisce a un altro cuore.»  (M.)

Sono le tre di notte e io sono seduta su un letto a guardare una valigia aperta e piena fin sull’orlo, o di più. Chissà se domani riuscirò a chiuderla – ma sì, ci riuscirò, ce l’ho sempre fatta. Poi la caricherò sull’autobus, metterò le cuffiette nelle orecchie e dopo quasi sette ore di viaggio sarò arrivata.

Sto partendo. Vado verso una terra che mi chiama, verso una voce che finalmente non sentirò più solo al telefono, verso un paio di occhi verdi che quando mi guardano è come se qualcuno mi vedesse davvero per la prima volta.

Sono in viaggio, e la verità è che ho paura, ho scritto giorni fa, che tutti i giorni è una guerra con me stessa, ma anche credo sia il periodo più bello della mia vita, perché non è perfetto, non devo essere il giudice di me stessa (questo scriviamolo bello grosso, sottolineato e in grassetto, e con un paio di luci intermittenti già che ci siamo), perché, come mi disse qualcuno, «non ne hai il diritto».

E c’è che vorrei dire tante cose, che in questi mesi non ho scritto perché onestamente non avrei saputo come fare, come dar loro un nome, infilarle una dietro l’altra come perle sotto forma di parole, il che di solito è la mia arma prediletta contro il caos che mi sale dentro e che cerco di ordinare così, appunto, con le parole, con le storie, raccontandomi me stessa, mettendo in fila le parti di me come le perle di una collana, del resto si sa che la coscienza nasce con la parola, ho letto da qualche parte, e che l’uomo una volta creato per prima cosa diede i nomi alle cose, ho letto da qualche altra.

Per cui non scrivo, o meglio qualcosa scrivo anche, su quella carta che rimane chiusa nel cassetto e che a volte pesco chissà dove, presa al volo nell’urgenza del momento, e che si unisce ad altra carta che avevo dimenticato di avere   [tra le mani mi cade una lettera lunga pagine che non ho mai spedito, e non è neanche l’unica, ma questa per qualche tempo avevo seriamente pensato di inviarla, chissà se avrei mai ricevuto risposta]   e a quella virtuale di post iniziati e mai conclusi, o mai pubblicati, perché ci vuole del pudore con le nudità dell’anima – in ogni caso quel che ho scritto non è neanche una piccola percentuale di quel che mi scorre dentro.

E probabilmente è giusto così, va bene così, è questo quel che devo fare ora. Lasciare che scorra, immergermici dentro senza analizzarlo troppo, anche se un po’ mi dispiace, perché scrivere mi aiuta a ricordare, è come scattarsi una foto, e io amo ricordare, e amo anche scattare foto ora che ci penso.  E vorrei ricordarmi di tutto, anche dei più brevi attimi, di quelli belli e bellissimi e di quelli brutti e bruttissimi, di quando ho pensato che non sono abituata a pensare la giornata in due anziché da sola, e non ho capito ancora se è una cosa bella o brutta, ma credo tenda verso il brutto, o di quando ho sorriso guardando nella mia mano la chiave di una casa non mia, dove ho lasciato il mio spazzolino («questa è casa tua»), e questo credo tenda verso il bello, o di quando mi sono stupita di fare cose normali come andare a guardare una partita di calcetto, o del suo sguardo un po’ perplesso quando gli ho messo in mano un soffione – e insegnargli che i soffioni sono fatti per essere soffiati via, come fosse un bambino – , o di quella corsa prima che prendesse l’autobus per dimostrare a me stessa che potevo farcela, dopo i cinque minuti più lunghi di sempre, sola con tutte quelle lacrime che sembravano inesauribili, che potevo provare a combattere per essere felice, provare a resistere alla tentazione di lasciarmi schiacciare dalla paura (lo vedi che ti faccio soffrire?), o ancora dell’alba vista da una cucina vuota dopo una notte troppo lunga, o del tramonto sul mare, meravigliandosi ancora un volta di come scompaia in fretta il sole quando arriva all’orizzonte («non me ne ero mai accorto»), o del profumo dei tigli in fiore che ormai mi ricorda la sua città, o delle parole che salgono alle labbra ma si fermano un attimo prima, o degli occhi che si alzano al cielo ogni volta che dico no, non sono così bella come dici tu, o della rosa lasciata ad aspettarmi, come lui, che mi aspetta sempre («tu sei libera»)                  [o della domanda terribile, terribile, che cova sempre giù in fondo, in fondo a quel pozzo                 (…e se non sapessi amare?)         …e che va decantata, va lasciata riposare lì, in attesa che passi la sensazione di congelamento che prende il cuore, in attesa che il battito torni regolare – del resto, cercavo qualcuno o qualcosa che mi rianimasse tempo fa, o sbaglio?]

                                …e così vorrei continuare, fissare ogni attimo e scrivere la mia storia, scriverla mentre ci sono dentro, e raccontarmela, essere e dire allo stesso tempo, essere e raccontarmi. Ma forse, ripeto, è giusto così, va bene così. Lasciar tacere la voce narrante, lasciar perdere motivazioni e cambi di scena, finali provvisori e revisioni della trama, lasciare da parte il dire e far rimanere l’essere. Smettere di essere storia e iniziare ad essere vita.

Per cui, spengo tutto e parto. Vado in Puglia, vado da lui, dove il cuore riesce ad essere leggero e libero.

«L’amore è libero, non c’è costrizione.» (M.)

«…Tu sei libera

Vado.