Le giornate coperta

Le giornate coperta sono quelle giornate in cui, a un certo punto, vorresti che tutto venisse seppellito non dico sotto un velo pietoso, no, proprio sotto una bella coperta di quelle pesanti, che tengono caldo e danno sicurezza: stendi la coperta, tutto va a posto e grazie tante. Le giornate coperta non sono quelle in cui va tutto storto fin da quando si posa a terra il piede dal letto; no, quelle sono altre, si possono chiamare in vario modo, anche semplicemente giornate-ma-perché-non-mi-sono-girata-dall’altra-parte, dato che la cosa migliore da fare sarebbe, appunto, spegnere la sveglia, voltarsi dall’altra parte e continuare a dormire fino al giorno dopo – e tu lo sai, ma ti ostini ad alzarti e ad affrontarle lo stesso, ché ti tocca.

No, le giornate coperta sono più infide: iniziano bene, magari nel migliore dei modi, oppure iniziano normalmente, e poi piano piano, ora dopo ora, ti rendi conto che stanno andando sempre più… male. Male, e basta. Hai un appuntamento che sembra essere risolutivo ma invece non concludi niente, hai bisogno di una cosa che al negozio non trovi, la macchina ti lascia quasi a piedi, passi due ore al computer a informarti per un corso che si rivela più complicato del previsto e non sai nemmeno se ti servirà mai, lo strumento infernale con il quale si fa salire la legna per il camino quasi si rompe e devi fare due volte sue e giù per riempirlo, accendi il pc per scrivere la tesi e ti accorgi che il documento con l’ultimo salvataggio è rimasto su quello del tuo ragazzo a chilometri di distanza, e WordPress neanche funziona a dovere. E così arrivi alle sei di sera che vorresti solo una bella coperta, calda e consolante, sotto la quale ficcare tutto e riposare finalmente la testa e il corpo, senza pensare più a nulla. Chiusa in casa, tu e la coperta, e tutto il mondo fuori.

Ma il punto è che, in realtà, tutto questo non ti toccherebbe più di tanto in una giornata di ordinaria follia, in una giornata media in cui te ne capitano poi poche meno, ma insomma siamo lì. Le giornate coperta richiedono la coperta perché in realtà quello che si vorrebbe è accoccolarsi e lasciare che scivolino via i fantasmi che popolano il pensiero, quelli nascosti, che anche se stai pensando ad altro o stai facendo altro sono lì che passeggiano, dietro le quinte di ogni azione o parola, e non ti lasciano.

Sono lì che aspettano che tu ti decida a farci i conti, a elaborarli, a digerirli. Ti stanca molto, questa lotta per tenerli lontani, per permetterti di fare quel che devi, per trovare le motivazioni. Ma non è colpa tua; ci sono e basta. E quando tu non ci pensi, sono loro a pensare a te.

Le giornate coperta sono così: va tutto male, ma quel che davvero sta male è quel punto imprecisato all’altezza dello stomaco, che a volte scende verso la pancia, a volte risale fino al cuore, alla gola, agli occhi, e che vorresti poter curare con una semplice coperta – e un buon libro, già che ci siamo; e una confezione di gelato, per buona misura.

Ma siccome lo so, io, che le giornate coperta non si risolvono mai con una semplice coperta, sono qui che mi intestardisco a tenere fede almeno ai miei impegni, a non lasciarmi stressare troppo da cose irrilevanti, ad ascoltare musica allegra che, ho scoperto, è molto più utile di quella malinconica nelle giornate coperta.

E mi scopro a pensare con più leggerezza, a sorridere di me stessa, di quanto posso essere ridicola nel mio riflettere su cose tremendamente serie, e non so perché questo mi ricorda, al rovescio, di quanto sarò parsa ridicola quando ho passato quasi mezz’ora a decidere attentissimamente e serissimamente quale maschera di carnevale comprare e poi ho preso un paio di occhiali rossi giganti che mi hanno invidiato tutti i bambini di Piazza del Popolo il giorno di martedì grasso.

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Malattia affettivo-emozionale a prognosi infausta

Sembra che sia arrivato il freddo, così, d’un botto. Fino all’altro ieri avevo ancora la giacca da metà stagione e adesso ho messo il cappello di lana.

Il freddo improvviso fa male, coglie impreparati, si rischia di ammalarsi. E, soprattutto, si sente ancor più freddo di quanto non si dovrebbe; se solo fosse arrivato più gradualmente, a suo tempo, ecco.

Io cammino stringendomi nella sciarpa, pensando che c’è proprio aria di Natale, con le luminarie comparse magicamente il giorno dell’Immacolata lì dove fino al giorno prima c’era solo un albero, o un balcone anonimo.

Siedo nelle chiese, incerta del perché mi ritrovi lì. Non lo so più tanto bene in cosa credo. Vado in automatico e tutto mi sembra un pretesto per riflettere su quello che provo – o che non provo.

Mi guardo intorno e ho come l’impressione che i rapporti con le persone mi si sfilaccino tra le mani, lasciandomi solo un sorriso un po’ congelato, un po’ malinconico. Forse non ho mai imparato davvero a relazionarmi con il mondo; forse la sensazione forte di solitudine che mi striscia dentro è persino necessaria, adesso.

Le ore trascorse sui mezzi pubblici sono segnate da soliloqui interiori e da epifanie di significato – ingannevoli, probabilmente. Oltre al fatto che sembrano essere gli unici momenti in cui riesco a studiare.

Se ho l’impressione che sia quasi necessario rompere qualcosa – qualcosa di bello grosso -, lasciare tutto, lasciare tutti, lasciare anche me stessa se solo fosse possibile, sconvolgere la mia esistenza e non farmi più trovare, abbandonare ogni certezza, piantare in asso ogni aspettativa, qualcosa vorrà dire.

Mi sa che sono piena di rabbia, da qualche parte, qua dentro.