Per un pezzo di carta – parte seconda

C’era una volta una tizia che aveva iniziato a parlare della sua tesi, riuscendo nell’impresa di scrivere un intero post senza far capire nulla dell’argomento. Ecco, ora che la cosa è praticamente fatta e la data fatidica si avvicina, la tizia viene finalmente al punto.

Dunque, la mia tesi è in Filologia, ma non esattamente di quella filologia di cui vi ho parlato; di un altro tipo. Sì, ne esistono diversi tipi, tanti quanti sono i tipi di testi, potremmo dire.

Ad esempio, ci sono casi in cui non esistono tanti manoscritti ma uno solo, e si può lavorare solo su quello; oppure può capitare di avere l’opera ma non l’autore, e bisogna pur attribuirla a qualcuno; oppure si ha il testo fatto e finito ma si scoprono le “brutte copie” dell’autore e tutti giù a ficcare il naso negli appunti del tizio o della tizia (ma in letteratura italiana ci sono più tizi che tizie, è questa la triste verità) per vedere come lavorava, per osservare la sua officina segreta  – la cosiddetta “critica degli scartafacci”. Insomma, ce n’è di cose da fare.

C’è poi il caso in cui l’autore aveva cominciato a scrivere una cosa e poi per un motivo o per un altro (per esempio, è morto), non l’ha finito. E qui sorge il dilemma: che ne facciamo del manoscritto? Perché sicuramente l’autore non vorrebbe che venisse pubblicato, così, senza revisione, magari con delle parti mancanti; però a noi piacerebbe leggerlo lo stesso, forse addirittura ne abbiamo quasi il diritto, perché un’opera non può rimanere nascosta, non può morire così: deve vivere, e per farlo ha bisogno di qualcuno che la legga. A volte però non è mai stata nemmeno concepita per essere letta da altri; parliamo di lettere, diari personali, appunti privati, liste della spesa, insomma: cosa fare in questi casi? Pubblicare o non pubblicare? E, nel caso, come?

Questo è il dilemma da cui sono partita io: come lavora il filologo su un testo non-finito, non autorizzato dall’autore e magari pure privato? Ed ecco lì l’esempio più autorevole della storia della letteratura italiana: lo Zibaldone di Leopardi. Lo Zibaldone non solo non era destinato alla pubblicazione, non solo era di carattere privato, ma ha delle caratteristiche tutte sue. Diciamocelo: non sappiamo cosa sia. Non è un diario privato, o almeno non come ce lo immaginiamo; non è un quaderno di appunti, o almeno non solo; non è la brutta copia di altre opere, o almeno non esattamente; insomma, non è niente di quello che potrebbe venirci in mente, e allo stesso tempo è tutto questo. È un insieme di 4526 pagine, scritte nell’arco di quindici anni, su cui è scritto di tutto, dagli abbozzi poetici agli aforismi, dalle dissertazioni di carattere linguistico e filologico ai ricordi autobiografici, dalle riflessioni filosofiche alle notazioni di costume, tutto quel che interessava Leopardi ha una traccia tra queste pagine, scritto senza un ordine apparente, privo di una se pur minima sequenzialità nella maggior parte delle volte. Per di più è evidente che Leopardi rileggeva quel che scriveva e pensava anche di servirsene un giorno, perché ovunque vi sono richiami ad altre pagine in cui si parla dello stesso argomento, magari ripreso a distanza di mesi o anni, e a sua volta quelle pagine hanno altri rinvii, e altri riferimenti, e si crea una rete di percorsi trasversali davvero labirintica. Insomma lo Zibaldone è un iper-libro, perché contiene tanti libri, e quindi di fatto è un non-libro.

Ora, posta la nient’affatto scontata decisione di pubblicare un’opera del genere: come fare? È un’impresa: bisogna innanzitutto decifrare bene la scrittura di Leopardi, e per fortuna che è piuttosto chiara; bisogna cercare di far capire al lettore che lì c’era una cancellatura, che prima Leopardi ha scritto così e poi invece così, perché questa informazione, apparentemente inutile, potrebbe dirci cose fondamentali sul pensiero dell’autore. Bisogna individuare a che pagina di riferisce quando scrive “in un altro momento ho detto così”, perché mica lo specifica sempre; e poi bisogna risalire alla data in cui ha scritto una determinata cosa, perché magari si trova su una pagina in cui è scritto, chessò, 1821 e invece poi scopriamo che la frase è stata aggiunta due anni dopo, e non è mica la stessa cosa. E poi il curatore ci farebbe un grande favore se per esempio individuasse da che libro è presa quella citazione che fa Leopardi, a che poesia si riferisce quell’appunto, cosa c’è scritto in quella pagina tutta in latino o in greco che io lettore comune non capisco. Ecco, questo lo fa un’edizione critica, cioè un’edizione che ha un apparato in cui il filologo ti dice “guarda che qua c’è una cancellatura e qua un lapsus” eccetera –  e di solito ai lettori comuni non capita di sfogliarne; quella che ho studiato io è agile e comprensibile, ma ce ne sono alcune davvero criptiche, che usano simboli e abbreviazioni sconosciute.

In sintesi, ho fatto questo: ho preso l’edizione fotografica dello Zibaldone (dieci volumi di foto del manoscritto originale pagina per pagina, ovviamente non l’ho sfogliata tutta, altrimenti non sarei qui a raccontarvelo), ho selezionato alcune pagine e le ho confrontate con l’edizione critica più autorevole che abbiamo, che è quella curata da Giuseppe Pacella: un vero eroe, se vogliamo, dato che ha dedicato più di trent’anni della propria vita a questa impresa, per di più snobbato e criticato perché non era un accademico ma un “semplice” insegnante. Insomma, mi sono messa a vedere come fa il filologo a risolvere tutti questi problemi, cosa registra in apparato e cosa spiega nelle note. Poi andando avanti mi sono accorta anche di un’altra serie di problemi più generali (e ho infilato anche loro nella tesi), tipo se è mai esistita una brutta copia, o perché Leopardi inizia a datare i pensieri solo da un certo punto in poi, e a cosa gli servivano gli indici – ebbene sì, ha anche stilato degli indici dello Zibaldone -, se esiste una progettualità nascosta in un’opera che sembra così frammentaria, se è meglio l’edizione fotografica o quella critica (la seconda, of course), e c’è anche un accenno all’edizione in CD-Rom. Per questo qualche post fa parlavo di Giacomo 2.0: c’è anche un’edizione Zanichelli in CD-Rom che, oltre ad essere stata una manosanta per la mia tesi permettendomi di non dover bivaccare nelle biblioteche di Roma, rappresenta un modo nuovo e facile di consultare un’opera così complessa e quasi, potremmo dire, ipertestuale.

Ecco, questa è la mia tesi: Problemi filologici dell’edizione dello Zibaldone leopardiano.

E la devo discutere tra una decina di giorni (brrr).

Scrittura

«La scrittura dev’essere scrittura e non algebra; deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l’esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell’animo, è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremmo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. Che altro è questo se non ritornare l’arte dello scrivere all’infanzia? Imparate imparate l’arte dello stile, quell’arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell’arte che oggi è nella massima parte perduta, quell’arte che è necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere.»

Giacomo Leopardi, Zibaldone di Pensieri

(dall’edizione critica a cura di Giuseppe Pacella, vol I, Garzanti, Milano 1991, p. 590-591)

 

Questo sempre per dire che prima o poi – probabilmente – dirò qualcosa di più articolato, e non solo sulla tesi.